Lo scandalo delle «quote nere» che ha scosso la Francia è lo specchio dei tempi. Di porre limiti al reclutamento di calciatori africani non si è parlato nelle curve, fra teppisti, e neppure nei bar, fra ubriachi: se ne è discusso a livello ufficiale, l’8 novembre scorso, in ambito federale a Parigi. Difficile “giocare” all’equivoco: ma anche se di equivoco si fosse trattato, ci sono argomenti – e il razzismo è uno di questi – che non possono prestarsi a malintesi filosofici o ambiguità procedurali. Tanto più se, e quando, il Front National di Marine Le Pen non la pensa in maniera poi così diversa. Siamo arrivati al punto che rischia il posto addirittura il commissario tecnico Laurent Blanc, reo di un atteggiamento troppo remissivo se non, peggio ancora, apertamente complice.
Non c’entra un eccesso di demagogia mascherata: c’entra, se mai, un difetto di democrazia stuprata. E che protagonista sia la Francia, proprio «quella» Francia che, nell’estate del 1998, trasformò il titolo mondiale nel simbolo della frontiere multietnica, significa che la cronaca ha perso terreno nei confronti della storia. Il razzismo non ha bisogno di detonatori, per esplodere. Spesso, basta un fiammifero, un gesto, una frase: un equivoco, appunto. Globalizzazione e meticciato hanno messo in crisi gli antichi catechismi, i vecchi confini, geografici e culturali. Lo sport dovrebbe rappresentare uno strumento di educazione, di vicinanza, di confronto. Non sempre è così. L’ignoranza, l’indifferenza e la diffidenza hanno trascinato gli stadi verso picchi di spericolata e scandalosa impunità . Il caso Francia è un assist ai talebani della purezza etnica, un invito a pescare nel torbido dei colori. Si butta l’amo e poi ci si nasconde: qualcuno abbocca sempre.