La notizia della morte di Pietro Paolo Mennea attraversa il primo giorno di primavera con la forza vigliacca della pugnalata alla schiena. Aveva 60 anni. Era stato l’atletica leggera italiana, «leggera» per modo di dire, visto il modo maniacale con il quale l’aveva aggredita. Credo che la sua filosofia poco si discostasse dal catechismo di Marco Pantani, così veloce in salita (e lui, in pista) per accorciare la tortura.
Uomo di Barletta – e, dunque, del Sud – l’ho conosciuto e frequentato ai Giochi Olimpici, su tutti l’edizione di Mosca, nel 1980, dalla quale estrasse l’oro dei duecento metri. Non sprecava un aggettivo, così come, sul tartan, non sciupava un metro. Fondamentale fu l’incontro con il professor Carlo Vittori. Insieme, riscrissero lo sprint. Li ricordo reclusi a Formia, sotto un sole feroce, singolare coppia di Oscar Wilde a rovescio: capaci, cioè, di cedere a tutto tranne che alle tentazioni, doping compreso.
L’avevo perso di vista, era un fachiro, un solitario: e come tale se n’è andato. L’ha portato via un male incurabile, che la famiglia aveva tenuto nascosto alla morbosità del sentimento popolare. Scrivo di getto, assalito da tanti ricordi, da tanti rimorsi.
Pietro è stato un anti-italiano, termine di cui si abusa ma che nel suo ascetismo manifesto, e per la sua carriera, calza a pennello. Se Livio Berruti aveva incarnato il talento, lo stile, l’eleganza, con quel volo di colombi a scortarlo leggero al traguardo di Roma, Pietro è stato il volli-fortissimamente-volli di un ragazzo dal fisico sghembo, quasi banale, deciso a prendersi la vita attraverso lo sport, e non viceversa.
In questi casi, si rischia di cadere nel patetico. E allora mi fermo, come mi avresti consigliato tu.
Beck! La FRECCIA DEL SUD! Grandissimo! Riposi in pace.
Quel pugliese diverso, di casa alla Juventus
Simbolo e tifoso Tra Causio, Anastasi e gli operai meridionali della FiatNon fece mai demagogia sulle proprie origini. Agnelli lo volle alla Sisport
Dice un proverbio barlettano: «da dou pret stort iès nu murid». Da due pietre storte nasce un muretto.
Pietro Paolo Mennea, di Barletta, era stortignaccolo, secondo una immagine feroce di Gianni Brera, ma da quella morfologia esteticamente non perfetta costruì il suo muro, forte, enorme, grandioso. Era un pugliese diverso, come è diversa la gente di Barletta dal resto di quella lingua di terra che sale verso il nord.
Introverso, silenzioso, solitario, puntuale, timido, esplosivo. Era vecchio da giovane ed è morto giovane da vecchio. La Puglia oggi espone la sue bandiere di ultima generazione, Cassano, Vendola, musicisti, teatranti, attori, registi. Per anni Pietro Paolo Mennea ne è stato il simbolo mondiale, oltre l’Italia delle regioni e delle fazioni, bandiera pulita, nitida.
Mennea, con il silenzio che lo ha accompagnato fino all’ultimo respiro, tornava nella sua terra. Mai ne ha fatto un oggetto di propaganda o di riscatto, altri hanno sfruttato il sud per farne uno strumento di demagogia. Gli occhi spiritati e quella bazza alla Totò non lo facevano somigliare a nessun altro atleta di cui si descrivevano, invece, il fisico austero, i muscoli prepotenti. Eppure Pietro era alto centottanta centimetri che diventavano un’ombra nel canneto, quando si accucciava prima di fare esplodere la sua voglia di vivere, di vincere. Era venuto a Torino, alla Sisport, la casa sportiva della Fiat, che gli aveva garantito un contratto.
Torino era la città più meridionale d’Italia, per i pugliesi la terra promessa, il treno che risaliva, lentamente, di notte da Lecce, Bari, Foggia verso Porta Nuova, ripassava la storia del Paese. A Torino Mennea incontrò le figurine della sua infanzia e gli idoli della sua adolescenza, il presidente, i calciatori della Juventus, gli Agnelli. C’erano meridionali come lui, uno anche pugliese, di Lecce, Franco Causio, c’erano Pietruzzu Anastasi, Furino, Cuccureddu, l’idea di Gianni Agnelli era quella di tenere in squadra atleti che scaldassero i cuori degli operai meridionali della Fiat, Mennea rappresentava il completamento dell’opera, il presepe dei sogni era perfetto.
Lo incontrai una sera inoltrata, all’aeroporto di Linate, quasi deserto. La partenza dell’ultimo aereo, per Bari, prevedeva mezzora di ritardo. Prendemmo a raccontare delle cose pugliesi e di una Torino che faticava a raccogliere i “napuli” come venivamo chiamati per mischiarci tutti assieme. Sorrideva con la bocca storta, tenendo tra le mani una copia di Hurrà Juventus con il faccione di Vycpalek in copertina e, all’interno, un articolo dedicato a Mennea, il fulmine juventino, lo sfogliava, quasi stupito ma felice. Ci eravamo sentiti altre cento volte, le vicende di calciopoli lo avevano disamorato, sentendosi tradito aveva provato attrazione per Mourinho e il senso testardo del portoghese per la vittoria; erano diventati amici.
Penso che si sia addormentato tenendo il dito levato al cielo. Il suo ultimo fotofinish.
Tony Damascelli – 22/03/2013
Ciao Pietro!!Quante cose mi fanno ricordare le tue vittorie,pezzi di gioventù passati troppo in fretta.