Ciao, Pietro

Roberto Beccantini21 marzo 2013Pubblicato in Per sport

La notizia della morte di Pietro Paolo Mennea attraversa il primo giorno di primavera con la forza vigliacca della pugnalata alla schiena. Aveva 60 anni. Era stato l’atletica leggera italiana, «leggera» per modo di dire, visto il modo maniacale con il quale l’aveva aggredita. Credo che la sua filosofia poco si discostasse dal catechismo di Marco Pantani, così veloce in salita (e lui, in pista) per accorciare la tortura.

Uomo di Barletta – e, dunque, del Sud – l’ho conosciuto e frequentato ai Giochi Olimpici, su tutti l’edizione di Mosca, nel 1980, dalla quale estrasse l’oro dei duecento metri. Non sprecava un aggettivo, così come, sul tartan, non sciupava un metro. Fondamentale fu l’incontro con il professor Carlo Vittori. Insieme, riscrissero lo sprint. Li ricordo reclusi a Formia, sotto un sole feroce, singolare coppia di Oscar Wilde a rovescio: capaci, cioè, di cedere a tutto tranne che alle tentazioni, doping compreso.

L’avevo perso di vista, era un fachiro, un solitario: e come tale se n’è andato. L’ha portato via un male incurabile, che la famiglia aveva tenuto nascosto alla morbosità del sentimento popolare. Scrivo di getto, assalito da tanti ricordi, da tanti rimorsi.

Pietro è stato un anti-italiano, termine di cui si abusa ma che nel suo ascetismo manifesto, e per la sua carriera, calza a pennello. Se Livio Berruti aveva incarnato il talento, lo stile, l’eleganza, con quel volo di colombi a scortarlo leggero al traguardo di Roma, Pietro è stato il volli-fortissimamente-volli di un ragazzo dal fisico sghembo, quasi banale, deciso a prendersi la vita attraverso lo sport, e non viceversa.

In questi casi, si rischia di cadere nel patetico. E allora mi fermo, come mi avresti consigliato tu.

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