Molti pazienti invocano un’analisi sul sorteggio. Per me, è stato straziante. Juventus contro Real Madrid. Sono le squadre del mio cuore, insieme al Liverpool. Della Juventus mi innamorai dentro il tunnel di Omar Sivori. Il Real fu tra i primi a invadermi il salotto con le «ombre bianche» di Alfredo Di Stefano, Ferenc Puskas e Francisco Gento. Una sfida europea con l’Inter mi portò in casa il ruggito di Anfield, in anticipo sulle note struggenti di «You’ll never walk alone» e il filo nero della barbara tragedia dell’Heysel.
Juventus-Real, dunque. E, naturalmente, Barcellona-Bayern. Sono le partite che ognuno di noi avrebbe voluto giocare o vorrebbe giocare, penso ai più giovani tra i degenti. Sembra una bestemmia l’eco dei gridolini strozzati (di giubilo? di scampato pericolo?) che affiora, furtiva, dalle camere della Clinica. Por qué mai si dovrebbe brindare per aver beccato proprio la squadra detentrice? La Champions League nacque nella stagione 1992-’93 e nessuno, nemmeno il destino, l’ha vinta per due volte di seguito. Ci prova il Real di Carletto Ancelotti: un allenatore del filone buonista e di scuola demo-sacchiana (traduzione: pressing alto, fuorigioco? raddoppi? Sì, ma prima ne parlo con Cristiano).
Real, cioè Francisco Franco, cioè Santiago Bernabeu. Il suo braccio destro si chiamava Raimundo Saporta. Vide la luce a Parigi, andava pazzo per il basket, don Santiago lo chiamò a sé e ne fece il primo grand commis del calcio transnazionale. Saporta partorì Italo Allodi che partorì, con il cesareo, Luciano Moggi. E la cronaca diventò storia, in troppi sensi.
Juventus, Real. Non ci sarà Modric, il Pirlo delle merenghe, e non si sa ancora se e come recupereranno Bale e Benzema. Sull’altro fronte, niente Pogba. Il Real ha eliminato l’Atletico Madrid con gli stessi parziali con cui la Juventus ha liquidato il Monaco (0-0, 1-0), anche se con fiammate di gioco che, nella creatura di Massimiliano Allegri, ho colto solo a Dortmund e in alcuni sprazzi contro il Borussia e l’Olympiacos in casa.
Per principio, nella speranza che sia un principio errato, non prendo mai per oro colato la fase a gironi. Sta alla Champions come il testimone al matrimonio: serve, ma si può cambiare e non è cruciale come gli sposi. La scorsa stagione, con martello Conte in panca, finì 2-1 al Bernabeu e 2-2 allo Juventus Stadium. Reti: per noi, Arturo Vidal su rigore e doppio Llorente; per noi-bis, tripletta di Cristiano Ronaldo (uno su rigore) e squillo di Gareth Bale, il signor cento milioni di euro. Un soffuso equilibrio rischiarò il panorama, sporcato da una macchia d’inchiostro di Martin Caceres.
In ambito di eliminazione diretta, la musica cambia. L’adrenalina sale, gli episodi pesano quintali, i fischi degli arbitri tonnellate, o viceversa; per tacere delle scelte dei tecnici e, chiedo scusa ai fusignanisti, degli alluci dei giocatori, ridotti ormai a megafoni della scienza altrui. La locandina è pronta: BBC contro BBC, tridente d’attacco contro tridente di difesa, Bale-Benzema-Cristiano Ronaldo contro Barzagli-Bonucci-Chiellini.
In attesa di recuperare il superbo Real che aveva sequestrato la finale e il finale del 2014, Ancelotti ha riattrezzato un collettivo capace di disarmare i vietcong del Cholo Simeone, i loro muscoli e le loro trappole. Ha risolto «pisellino» Hernandez, il messicano preferito ad Alvaro Morata. Anche la fase di copertura mi sembra meno vaga, governata com’è da Varane Ramos e Pepe, con Sergio Ramos avanzato in versione Desailly.
In semifinale le squadre non si affrontano dalla primavera del 2003, quando Calciopoli non era ancora esplosa e la differenza dei fatturati e di tutto il resto, anche per questo, risultava meno imbarazzante. Si impose la Juventus (1-2, 3-1), poi sconfitta ai rigori, dal Milan (di Ancelotti, toh) nella «bella» di Manchester. I ricordi crepitano come pallottole. Ci vorrebbe un museo, non una clinica, per sfogliarli, per esporli, per salirci sopra (senza obbligo di biglietto, la storia del calcio è la storia del calcio). La zampata di Marcelo Zalayeta nei supplementari, con la mascella di Fabio Capello che sembrava uno schiaccianoci. La doppietta di Alessandro Del Piero al Bernabeu (con tanto di standing ovation). Il gol di Predrag Mijatovic nella finale di Amsterdam, quando fui tagliato a metà da un fuorigioco e un gioco povero. Il «miedo escenico» del Colosseo blanco, fatale alla Juventus operaia di Rino Marchesi. Per venti minuti, il Real la chiuse nell’area. Non nella metà campo: nell’area. Segnò Emilio Butragueno, l’avvoltoio salgariano di un’età felice. Quando la Juventus, in giallo, uscì dall’assedio per la prima volta, conquistò un calcio d’angolo. Sulla parabola, Lionello Manfredonia sorprese tutti meno uno: l’arbitro Robert Valentine, scozzese, un tipo che conoscono bene anche gli interisti (la biglia dello zio Bergomi). Gol annullato. E al ritorno, rigori: benedetti o /maledetti, in base alle sliding doors del mio cuore.
La Juventus di Zinedine Zidane, David Trezeguet, Pavel Nedved e il Real di Zinedine Zidane (più Ronaldo più Luis Figo, più Raul). Dovrei riempire pagine e pagine di nomi, di ritratti, di gesti epici, ma lo spazio è tiranno. Formidabili quelle sfide. L’ordalia che rammento con più nostalgia è l’1-0 che la Juventus «all black» inflisse al Real nel 1962. Mai avevamo perso in casa, nell’albeggiante Coppa dei Campioni. Fu la prima volta. E l’inviato de «La Stampa» era un certo Vittorio Pozzo: come la capisco, gentile Fulvio.
La realtà impone un brusco atterraggio sull’attualità . Nella Liga, talloniamo il Barcellona e siamo già fuori dalla Coppa del Re. In campionato, abbiamo lo scudetto in tasca e contenderemo alla Lazio la finale di Coppa Italia. Favorito parte il Real. La Juventus, però, deve sognare. A occhi aperti, come una persona matura, e non magari a occhi chiusi, come un cucciolo fragile, ma deve. Il logorio di Pirlo costituisce un confine ambiguo, come le gambe della squadra, di recente non proprio filanti. Al casino di Montecarlo, memori di Dortmund, tutti aspettavano la Signora in lungo: si ritrovarono una Melandri in infradito. Bastò, per fortuna.
Scherzi a parte: scrivere di Juventus-Real è come parlare di una bella donna. Potrà anche deluderti, per due sere, ma sarai felice, comunque, di averla portata a cena. La differenza possano farla in tanti, Cristiano Ronaldo su tutti. Per questo, paradossalmente, invito a non trascurare l’incidenza dei gregari.
La mia Juventus, il mio Real (che, oggi, penso meno granitico del Bayern, che pure mangiammo nell’ultima edizione, e del Barça normalizzato di Messi-Suarez-Neymar). Sono notti, quelle che ci aspettano, che spaccheranno il sentimento popolare – è sempre così, in Spagna, quando gioca il Real; è sempre così, in Italia, quando gioca la Juventus – e ci gonfieranno di emozioni, di tensioni, di retorica (ma sì). Ci rilanceremo, burbere Nausiche, l’implacabile tormentone: tre squadre in semifinale, ma il nostro campionato non doveva essere poco allenante?
Per concludere, le mie quote:
Juventus 40% Real Madrid 60%
Barcellona 50% Bayern 50%
Napoli 70% Dnipro 30%
Siviglia 55% Fiorentina 45%
E pure una astensione da contrasto, a dirla tutta.
Bah. Noi veramente molli, blandi nei contrasti e in fase conclusiva, con Morata leggerissimo e Matri che si égià mangiato due gol.
Una bella punizione, ma anche tre assist al bacio.al toro.
L’animoso e pugnacissimo toro difende virilmente l’1-0. Massicci!
Negli emirati, meglio
Er sistema-
Maestro!
Bisognerebbe fare come nel football:farlo entrare nei calci piazzati.vaiiiiiiii!
Chi è quello che….mandiamolo in USA?Vacci tu in USA!!
Ecco il perche di Pirlo anche se nn e al meglio.