Un paziente, il gentile Marcob, mi invita a prescrivere qualcosa a un mese dall’ultima ricetta. Lo sapete: non sono un esperto un tanto al virus e poi fatico a orientarmi in un Paese in cui, soprattutto a destra, l’abito fa ancora il monaco (o la monaca). Preferisco leggere, leggervi. E’ incredibile come la vita diventi, talvolta, metafora di sé stessa. Per forze di cause che da minori si son fatte maggiori, le mascherine hanno affiancato – e sostituito, in molti casi – le maschere (i passamontagna della Clinica). Paure diverse.
Figlio unico senza figli, sono del ‘50 e «tengo» una moglie che mi adora (tranne due volte l’anno). Se mai trapassassi, non se ne accorgerebbe nessuno: nemmeno il corona. Ecco perché, nel rispetto assoluto dei nostri 30 mila morti, mi viene da dire che, a questo punto, se fossi il governo rischierei qualcosa di più. Non penso allo sport, che pure nel cuore mi sta. Penso alle caste e alle mafie, pronte a balzare sui profitti del Grande Catenaccio. Penso a tutti coloro che sono chiusi da due mesi, pagano le tasse e per colpa della pandemia rischiano di pagare molto altro.
Non prima di aver ribadito che, dal mio piccolo pulpito, è agevole – di più: confortevole – pontificare, come ammonisce la massima di La Rochefoucauld: «I vecchi cominciano a dare buoni consigli per consolarsi di non poter più dare cattivi esempi». Penso, soprattutto, a chi ha perso affetti, stabili o non stabili.
Quanto al calcio d’élite, nella speranza (vana?) che non schiacci le altre discipline, non ho cambiato idea: che si riparta o no, deve dipendere esclusivamente dalla task force scientifica di Conte (Giuseppe). La salute first: l’ha detto anche Zeman. Fermo restando che tra un contagiato-tutta la squadra in quarantena (Spadafora) e un contagiato-solo lui in quarantena (Merkel), bé, la differenza proprio «gravina» non è. E’ grave.
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FATTA.