Già immagino il loggione: che ciofeca, ‘sta Polonia. Ma se è stata così sterile, così vecchia, così sciatta, lasciatemi pensare che «la idea» (di essere spavalda, frizzante, aggressiva) gliel’abbia rubata la Nazionale del Mancio a casa e di Evani in panca. Due a zero a Reggio Emilia, primo posto nel girone di Nations League e mercoledì a Sarajevo, contro la Bosnia, la prospettiva di filare dritti alla «final four». Modestamente.
Non è la prima volta che gli azzurri mi strappano dal divano. Sono giovani, hanno fame, giocano di prima, massimo due tocchi e, soprattutto, corrono senza palla: dettaglio, cruciale, che aiuta persino gli elementi più in crisi a sembrarlo di meno: penso al Federico Bernardeschi juventino.
Mancava un sacco di gente, anche Leonardo Bonucci, ma proprio lì, nel cuore del bunker e al cospetto di un cliente del calibro di Robert Lewandowski, la squadra ha cominciato a fissare le insegne, «hic manebimus optime», con Francesco Acerbi e Alessandro Bastoni. Povero Lewa: passare dalle munizioni del Bayern alla cartuccera polacca è stato come traslocare dalla Quinta strada al Sahara.
In questi casi, è giusto brindare a patto di non ubriacarsi. Il ct Brzeczek aveva escluso Zielinski e alzato un catenaccione di una tristezza infinita. Fatico, tra i nostri, a trovare uno che non sia stato all’altezza: e se Gigio Donnaruma ha parato poco, mica colpa sua. Unica seccatura, continuiamo a segnare poco in rapporto al crepitio del fuoco: e non ci sarà sempre un avversario così timido e scarpone (Goralski, doppio giallo) a darci una mano, a crogiolarsi nella polvere. C’era voglia di una partita simile, generosa nel pressing ma non certo nell’arbitro, tutti al servizio di tutti, con Manuel Locatelli, Jorginho e Nicolò Barella sempre nel vivo della manovra anche e soprattutto perché erano loro a dettarla.
Netto il rigore su Andrea Belotti, trasformato da Jorginho, splendida l’azione del raddoppio, firmato da Domenico Berardi, l’enfant du pays al cumine di 27 passaggi (l’ultimo di Lorenzo Insigne, le bollicine che servivano). La faccia di Zibì Boniek, in tribuna, raccontava l’ordalia meglio di qualsiasi Omero. Capita, quando non sei più tu che combatti a Ilio.
Alvaro, una furia (rossa).
Pace all’anima sua.
A segno ancora l’inemoniato Morata di queti giorni ma quando, per tutto lo scorso anno, scrivevo di andare decisi su Ferran Torres.
Peccato, veramente bravo.
Gentili Pazienti, buona sera. Una ttimo, per favore.
E’ mancato a 83 anni Angelo Caroli. Gli ho dedicato un pensiero nell’ospedale di Facebook. Ve lo riporto.
Sempre nel mio cuore.
ANGELO, RIMEMBRI ANCORA…
Faceva parte della Quinta di Camin, Angelo Caroli. Ci ha lasciato a 83 anni. Di quella «generazione dorata» che trovai a «Tuttosport», arrivando da Bologna nel ‘70. Vladimiro, poi Ginone Bacci, Bruno Bernardi detto bibì e Angelo. Bologna, proprio lì, dove Angelo, abruzzese dell’Aquila, aveva segnato, al debutto, l’unico gol in Serie A. Era il 29 gennaio 1956. Di mezzo contropiede, valse l’1-0. Formazione: Vavassori; Corradi, Garzena; Emoli, Cesare Nay, Oppezzo; Umberto Colombo, Bartolini, Caroli, Boniperti, Praest. Allenatore, Sandro Puppo, «occhialuto filosofo dall’aria pacata e solenne» (parole sue, di Caroli). Da cui i «puppanti», vista l’onda giovanilista del periodo. Il giorno dopo, tornò a scuola, atteso al varco da una versione di greco.
Avrebbe poi giocato nella Juventus di Boniperti, Charles e Sivori, regalandosi lo scudetto del 1961. Terzino-stopper, non più centravanti. «De profession bel zovine», secondo il gergo investigativo di paron Rocco, era affamato di sport – praticò con successo il salto in lungo – e di studi classici, beato fra le donne, di una juventinità che ha sempre governato, perché le zolle sono una cosa e i taccuini un’altra.
Ricordo il suo sorriso, contagioso. La cultura, un iceberg del quale, per pudore, nascondeva la punta. L’amore per la scrittura, che da «Tuttosport» lo portò a «La Stampa» e, soprattutto, ad allargare gli orizzonti, dalla poesia ai gialli, con Brahms e i fischi del Trap in sottofondo, e la Vecchia Signora, sempre lì, a suggerirgli passioni diverse ma non per questo meno sanguigne (o sanguinose, come ai tempi di Calciopoli).
Stava male da un pezzo, non lo sentivo da anni, continuavo però a «vederlo» ogni volta che la mente correva a via Villar, dove c’era la redazione di «Tuttosport», a quella strizzatina d’occhio che faceva capire le tante cose che la vita gli aveva offerto oltre il calcio. Girò un po’ d’Italia, giocò a Catania, Lucca, Pordenone, Lecco. Era un’anima inquieta. Ma un Angelo non cade mai: al massimo, vola via.
ROBERTO BECCANTINI
Chiello continua a giocare (si fa per dire) per coronare il suo sogno di fare il capitano della nazionale agli europei e quindi mondiali. Se poco poco bastoni, sotto la guida di Tonio, gli frega il posto in nazionale agli europei vedrai che si ritira.
COSA VUOI CHE SIA LA MERDA SPALATA DA MANCII
capello disse anche peggio
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Aprile 2003: “Tanti vorrebbero andarci, io no”
Febbraio 2004: “Mai in bianconero, sono scelte di vita”
“La Juve? Non mi interessa”
Così’ parlava Capello romanista
ROMA – “Mai alla Juve”. Si sa, nei momenti in cui le cose vanno bene è facile dichiarare scelte di campo in maniera netta. Poi le cose della vita, e soprattutto una firma in calce a un contratto, cancellano tutto. Come è successo a uno dei tecnici più preparati del calcio italiano, Fabio Capello passato inaspettatamente dalla Roma alla Juventus.
Così si può spulciare tra le dichiarazioni del passato, nemmeno tanto remoto, e scoprire parole di verso opposto ai fatti. Del resto, chi lo ha detto che non si può cambiare idea?
Aprile 2003. Fabio Capello si appresta ad affrontare al Delle Alpi la Juventus da allenatore della sua Roma. E alla domanda se tornerebbe da tecnico nella società che lo ha visto vincere da calciatore risponde con un no garbato ma altrettanto netto. ”E’ una squadra che non m’interessa”, dice. “Apprezzo la societa’, ma il mio è un discorso personale. Dico certe cose forse anche per l’età che ho, perché per quello che ti permette di fare chiunque vorrebbe andarci, ma io no. Poi e’ già ben allenata”. L’affetto che lo lega al club comunque non lo dimentica: ”Ci ho passato sei anni splendidi e ho rispetto per la società ”.
Febbraio 2004. “Io alla Juventus? Non andrei mai ad allenare i bianconeri che reputo comunque, in assoluto, tra le prime cinque società al mondo”. Così Capello lo scorso 7 febbraio. “Il fatto che io non vada ad allenare la Juve non significa che non mi abbiano cercato. Rispetto la società , ma a me non interessa andare lì: sono scelte di vita”.
(28 maggio 2004)
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https://www.repubblica.it/2004/e/sezioni/sport/calcio/serie_a/capeljuve2/capeljuve2/capeljuve2.html#:~:text=Febbraio%202004.,che%20non%20mi%20abbiano%20cercato.
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citazioni
https://le-citazioni.it/frasi/328788-fabio-capello-il-fatto-che-io-non-vada-ad-allenare-la-juve-non-s/
C’è solo una persona cui il il pipita può dare la colpa …..
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Scritto da Robertson il 17 novembre 2020 alle ore 16:
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il suo macellaio ….
Leo45 , in nazionale c’e’ ben poco da scegliere , sul volerlo alla Juve invece , ma scritto . Pero’ la squadra gioca bene , molto bene . Tutto qui .
Cartesio
pipita (bue) da sostanzialmente del cornuto all’asinello cristiano.
C’è solo una persona cui il il pipita può dare la colpa per una carriera che avrebbe potuto essere più fulgida, se stesso. Un poco patetico, su.
Ma infatti Mister33 , l’era Minestrara inizia proprio a Berlino , prima tutto sommato , aveva fatto bene .