Quello che ha vinto, brilla negli almanacchi: un mare di roba. Quello che è stato, lo sappiamo: uno dei più grandi attaccanti italiani (e non solo) del Novecento. Quello che sarebbe diventato senza la tubercolosi del gennaio ‘72 e il crack al ginocchio sinistro del novembre ‘81, lo intuimmo: ancora più grande. I 70 anni di Roberto Bettega sono un invito, prezioso, a guardarci indietro senza paura di passare per rimbambiti. Juventino fin dalla culla e di scuola fin da bambino, nasce mediano sinistro e diventa punta, in un’epoca in cui i vivai avevano istruttori e non ripetitori.
Liedholm lo sgrezza a Varese, in serie B, e poi sempre Juventus, solo Juventus. Esordio, a Catania: subito a segno; allenatore, Armando Picchi, uno che ne fiutò presto il valore, disposto – per questo – a pagare il prezzo di una decina di partite in bianco. Alcuni incidenti di percorso – il «mazzo» di Agnolin nella burrasca di un derby, l’elemosina di un gol che avrebbe chiesto a Dal Fiume e Pin del Perugia, le relative squalifiche – l’hanno reso umano, lui così algido, così primario da telefilm americano, pronto a operare in area pur di non sembrare il paziente.
Numero nove e numero undici quando cominciò la scalata; numero sette nei pressi della vetta. Centravanti e ala, destro e sinistro. E tanta testa, in campo e fuori. Lodovico Maradei, che della «Gazzetta» è stato firma storica di rara competenza, giura di non ricordare, di Bettega, gol banali. Alcuni di rapina, sì, ma quasi tutti plastici, belli: come il tacco a San Siro, contro il Milan, che spinse Rocco a togliersi il cappello; come la schiacciata -sempre a San Siro e sempre contro il Milan – che inaugurò un romanzo, non una semplice rimonta; come la sgrullata in tuffo, su cross di Benetti, che fissò il 2-0 all’Inghilterra in una tappa cruciale verso il Mondiale del ‘78; come il tocco raffinato che, proprio in Argentina e all’Argentina, suggellò un mirabile triangolo con Pablito. E tanti, tanti altri.
Moderno, sì. Segnava e faceva segnare. Si accentrava per liberare la fascia e offrirla alle incursioneidel terzino, del mediano. Disturbava le costruzioni dal basso – rare, all’epoca – con un incedere che non sapevi come valutare, se caparra sul futuro o tracce d’arroganza antica. Elegante e affilato, non si limitava a cogliere gli attimi: li porgeva. Passò dalla Juventus tutta italiana di Bilbao e dei 51 punti alla Juventus di Boniek e Platini. E fu proprio Bettega, al San Mames e a Marassi, contro la Sampdoria, a siglare i gol (di testa, di tacco) che valsero la prima coppa europa e uno scudetto storico, dopo uno strepitoso braccio di ferro con il Toro «olandese» di Radice. Il frontale con Munaron lo allontanò irrimediabilmente dall’epopea spagnola. Sarebbe stato il settimo juventino e non credo che avrebbero vinto i tedeschi. Bearzot lo aspettò fino alla fine. Poi ripiegò su Selvaggi detto spadino.
Da dirigente, fra Triade e post Calciopoli, e comunque mai toccato dalle sentenze, non ha avuto la stessa fortuna. Prima di volare a Toronto, per spendere gli ultimi spiccioli di carriera, chiuse ad Atene. Il 25 maggio 1983: Amburgo-Juventus. Fu l’unico, all’inizio, ad accendere un filo di luce. Di testa, quasi a pelo d’erba. Stein parò, e scese il buio. Il Trap gli rimproverò che avrebbe dovuto controllarlo, quel cross di Tardelli, e battere a rete di destro. Ci pensò su, a bocce ferme: «Sì, mister, forse hai ragione. Ho seguito l’istinto» (da «Michel et Zibì, gli amici geniali» di Enzo D’Orsi). Si domanderà anche, Robi, perché a saltellare su Magath, un attimo prima dello sparo fatale, ci fosse proprio lui. Un attaccante. Risposta: Happel aveva preso il Trap e se l’era messo in tasca.
Bettega non è stato ciclonico e omerico come Gigi Riva, un altro che il destino ha aspettato al varco, e il cui scudetto, a Cagliari, contagiò tutti. Bobby-gol è sempre stato juventino dalla testa ai piedi, in senso spirituale e aziendale, e dunque celebrato o esecrato, con un pregiudizio che, spesso, condizionava il giudizio.
Però che giocatore.
Infatti a Barcellona abbiamo vinto a briscola….
Si piange eccome se si piange!Si blatera di fantasmi dentro i palazzi 007 nascosti in cantina vampiri dietro gli armadi…..e basta proviamo a vincere sul campo!!Finora è questa la nostra vera pecca….non avere un cazzo di gioco!!
Lassate perde il Pescarese…. è ancora stordito dalle 3 sberle di oggi prese dalla Virtus Entella ultima in classifica…sta facendo scorte di vitamina “C”….
Piantala lovre qui non si piange affatto, si chiede che i disonesti paghino. Sia quando si vaccinano senza averne titolo e diritto, sia quando sposano cause truffaldine invece di occuparsi di problemi ben più importanti in piena pandemia visto che le asl, a questo dovrebbero pensare….
Per il resto che la partita si giochi, che è la cosa meno importante di tutte
constatiamo l’assurdità delirante di una “sentenza”, di un procedimento, in verità di un intero sistema. poi se ti piace…
lovre, qui non piange nessuno, per il “chiagne e fotte” devi guardare altrove.
eh, ma solo perché “la giustizia è tecnica”…
E basta chiagne,siamo la Juve!!!Gne gne gneeeeee
non si può dire che il napoli sia stato fortunato con il coni ma solo attento visto che qualche commissario del coni (napolista dichiarato) invitava il napoli a mezzo stampa, in tutta trasparenza, a fare ricorso anticipando che la sentenza sarebbe stata di annullamento delle sanzione.
Concordo Ezio….in molti hanno dimenticato che Insigne non poteva giocare per infortunio o squalifica non ricordo….e ci si è dimenticato pure che i giocatori del Napoli giravano indisturbati nonostante la quarantena fiduciaria.
Passare dalla slealtà sportiva alla completa riabilitazione sportiva, significa che non si è voluto favorire il Napoli, ma perculare la Juventus.
D’ altronde finché il silenzio della società come quello della stampa resta assordante, i dirigenti clown che abbiamo ci ridono sopra ed AA continua ad andare a braccetto con AdL come fossero nipote e zio, cosa vogliamo aspettarci?