Il Napoli stacca il Milan, avvicinato dall’Inter, la mia favorita, vittoriosa in scioltezza a Venezia. Classifica: Napoli 35, Milan 32, Inter 31, Atalanta 28. Non è stata una tappa banale. Anzi.
Cominciamo da San Siro. Sembrava una passeggiata, per il Diavolo, subito padrone e subito in gol, con Romagnoli. Piano piano, però, il Sassuolo ha preso campo e forza dal palleggio di Maxime Lopez e Matheus Henrique, gli strappi di Frattesi, le ante di Scamacca e i dribbling di Berardi, il migliore. A Pioli era stato appena rinnovato il contratto: giusto così. Con il senno di poi, temo che abbia affrettato il recupero di Maignan, ma la Champions costa, specie se gloriosa come la sera di Madrid, e qualcosa scricchiola: 1 punto nelle ultime tre partite – quello, avventuroso, nel derby – e 8 gol incassati. Troppi.
Il turnover non ha funzionato, e Ibra è un eroe che ogni tanto, a 40 anni, ci ricorda quanto sia difficile esserlo sempre. Tutti sotto la media, da Leao a Kjaer. Il 3-1 firmato dalla quasi doppietta di Scamacca (complice, sul secondo, proprio il danese) e da Berardi non si presta a scaramucce. Il rosso di Romagnoli ha accorciato l’agonia e anticipato l’euforia. Vallo a capire, il calcio (certe volte, almeno): il Sassuolo di Dionisi aveva sofferto di più, molto di più, allo Stadium, contro la sgangherata Juventus di Allegri.
Napoli, adesso. Il buio e le luci per Diego. Una notte da pelle d’oca. E un Mertens a quei livelli lì, del «diez». Entra nell’azione che propizia l’1-0 di Zielinski, segna in slalom dopo un’azione «a tutta squadra» e quindi con una parabola dal limite, una di quelle che sorprendono i portieri e i condomini. Punta, mezza punta, punta «e» capo. Se il destro al posto del sinistro è puro dettaglio, la statua all’ingresso riassume la storia che fissa le storie. Tre gol in mezz’ora, il Napoli. E poi, nel finale, il tracciante di Fabian Ruiz. Mancavano Osimhen e Anguissa: alzi la mano chi l’ha notato.
I ritorni di Sarri sono sempre dolorosi. La sua Juventus perse di misura, giocando male, la sua Lazio crolla subito. Travolta, letteralmente. Non uno che si salvi, da Immobile in giù. Né paga la mossa Patric. Spalletti, lui, veniva da un paio di sconfitte (il 3-2 interista, «per eccesso di fifa», il 2-1 dello Spartak, a Mosca, in Europa League). Invocava una reazione: l’ha avuta. Di gran carriera, con mosse e tocchi da toreri. Koulibaly, Zielinski, Fabian Ruiz, Insigne, persino Lobotka: todos.
Quando Diego morì, 4-0 alla Roma. Un anno dopo, 4-0 alla Lazio. In uno stadio che non è più di un santo, ma di un peccatore: un miracolo, anche questo.
Gentile Alex Drastico, buona sera. Se Leo è un pittore, Cristiano è uno scultore. Tanto per fissare i (miei) confini. Cristiano è un solista e un trascinatore, ma non un leader: anche se sprona la squadra, ricorda prima di Juventus-Atletico 3-0? Certo, nel ruolo e nel rango di trascinatore, affiorano anche tracce di leader, ma Cierre è troppo attaccante, troppo attaccato al gol per poter resistere alla tentazione di invocare tutti per sé, con l’impegno di ricambiare con il suo sé a tutti. Almeno per me.
Capitolo Bernardeschi. Le giro quanto scrissi sulla «Gazzetta»
il 27 giugno 2019.
C’è stato un passaggio, nella conferenza battesimale di Maurizio Sarri, che merita un supplemento di riflessione. Non è l’accenno ai «150 palloni di Miralem Pjanic», slogan spiccio in bilico fra l’idea, coraggiosa, d’imporre il proprio gioco e l’ideologia, ambigua, di opporre la quantità alla qualità, come se due colonne del giornalista più brillante potessero reggere un graffio di Indro Montanelli (ammesso di trovarne ancora). Non è questo, il busillis. E’ un altro. E’ la replica alla domanda su Federico Bernardeschi.
Nel dettaglio: «Ha una caratteristica comune ai campioni: la coordinazione. Mi è sempre piaciuto, ne parlavo bene già in tempi non sospetti. Ha un unico, grande difetto: è discontinuo. Alterna fior di partite ad altre in cui potrebbe dare di più. Credo che sia giunto il momento – per lui, per chi lo allena e, soprattutto, per la squadra – di scegliere un ruolo, uno solo», senza più altalene di posizioni, di mansioni, di tentazioni.
«Un ruolo». Come se il calcio, cavallo imbizzarrito, si fosse d’improvviso rivoltato alle redini del cow boy domatore. Non più l’eclettismo del «totaalvoetbal» di Rinus Michels e Johan Cruijff, che proprio il «Chera» Guevara in tuta aveva scomodato per decorare l’epopea napoletana; non più l’esigenza-voluttà di trasformare il singolo in un piccolo coro, capace di molto, alla Johan Neeskens o alla Marco Tardelli; al contrario, un repente e stridente ritorno alla tradizione. Pur adorando il timbro di Charles Bukowski, Sarri marca stretto George Orwell che, in «1984», scrisse: «Chi controlla il passato, controlla il futuro. Chi controlla il presente, controlla il passato».
Ecco: fuor di metafora, e di citazione, il passato (remoto) suggeriva di incatenare il singolo a un unico «status», lontano dall’eresia di «tuttocampista» che, nel caso di Bernardeschi, aveva contagiato Massimiliano Allegri e, in Nazionale, persino Roberto Mancini. Sarri lo controlla, nel senso che non l’ha dimenticato e, se serve, non lo reputa necessariamente negativo, ostativo, giurassico.
Pavel Nedved si arrampicò fino al Pallone d’oro per aver saputo armonizzare e moltiplicare il paradosso di tutto ciò che non era o non aveva «del tutto». Non era mediano, non era mezzala, non era trequartista: partito generico, crebbe ed esplose versatile. Per Federico si profila il percorso inverso. Il nuovo allenatore di Madama ha paura che si perda nel labirinto. Il massimo del bello lo toccò contro l’Atletico, allo Stadium: trascinante e tracimante. Fu un’eccezione. Il Bernardeschi juventino è, di regola, un tipico atipico che, sul punto di calibrare la risposta definitiva, non sa quale pescare: se il tiro come punta, il dribbling come ala, l’assist come rifinitore. Con il rischio, spesso, di confondere attimo e battito, azione e reazione.
Allegri, incallito tradizionalista, si spinse troppo in là. Sarri, maestro venerato e venerabile di bel canto, medita di andare avanti tornando indietro. Bernardeschi sarà un fine, e un confine.
Grazie per lo spunto.
A me il Campanelli mi pare lapidario, e se si trattasse di aiutarlo con le pietre mi offro volontario.
“Ad oggi Max non solo non ha trovato una soluzione a nessuno dei problemi che affliggevano la squadra, ma ha riportato con sé quelli relativi agli ultimi anni della sua gestione, dalla squadra troppo bassa e reattiva all’assenza di spartiti in fase offensiva e di supporto per i giocatori più tecnici, aggiungendone addirittura altri: i calciatori messisi in luce nelle due annate precedenti, su tutti de Ligt, Danilo e Chiesa, appaiono peggiorati o sfiduciati, mentre i giovani che si diceva fossero al centro del progetto, come Kean, Kulusevski e Kaio Jorge, hanno sin qui rivestito ruoli da comparse.”
Amen
Scritto da Robertson il 30 novembre 2021 alle ore 09:57
Luca L.
Prova leggendo questo post.se non riesci a capire nemmeno cosi….ti rimane solo di andare a cena con enristo o un babbuino che poi è la stessa cosa.magari andate al giapponese all you can eat.
Sig Beck buonasera
Cr7 oltreche solista è un leader?
Al netto che è un problema,che ha mpedito a bernardeschi di esplodere ect ect
Gentile Robertson, anche Maradona non ha vinto la Coppa dei Campioni (direbbe Sacchi)… Tornando a Leo, sì, è un grandissimo solista più che un leader. E per restare al paragone giornalistico, un grandissimo inviato che non mira a fare “anche” il direttore. Un po’ come, facendo le debite proporzioni, Roberto Baggio ai suoi bei dì.
Cambio di modulo? Sarà la solita sbobba, vedremo se almeno contro la Salernitana basterà
Buonasera Beccantini,
come avrebbe votato al Pallone d’Oro fosse stato ancora tra i giornalisti votanti?
Sono rimasto abbastanza basito da quelli di Condò
1) Jorginho
2) Benzema
3) Messi
4) Lewandowski
5) Kjaer
Diciamo che lui ai mondiali e coppa america non è mai stato brillantissimo, nè estremamente decisivo, tranne appunto forse l’ultima. Problema un poco caratteriale. (argentino non argentino).
La domanda è come cacchio ha fatto l’argernina di messi a vincere una sola coppa america in tutta la carriera di messi, oltretutto quando il genietto aveva 34 anni, e mai prima. Colpa anche sua.
Scritto da Robertson il 30 novembre 2021 alle ore 19:39
Magari non è così semplice vincerla.
Gentile Robertson, lei cerca la perfazione. Non esiste neppure in Pelé e Maradona. Si accontenti della imperfezione di Leo o di Cristiano, tanto per rafforzare il concetto.
19:23 – Arrivano conferme dall’Arechi: Max Allegri cambia modulo e punta sul 4-2-3-1. Szczesny in porta; Cuadrado, De Ligt, Chiellini e Pellegrini in difesa; Bentancur e Locatelli in mediana; quindi Kulusevski, Dybala e Bernardeschi alle spalle dell’unica punta Kean.