Ha combattuto fino all’ultimo, e non è solo un modo di dire. Lui, che a raccontar guerre, quelle vere, avrebbe potuto tenerci svegli per notti. Se n’è andato Sinisa Mihajlovic, giocatore forte e allenatore girotondo; ultima tappa, Bologna. Serbo e non servo, con gli spigoli che gli slavi si portano dentro, pronti a trasformarli in aculei, figlio di un tempo che non riusciamo a domare e dal quale, come dimostra l’aggressione della Russia all’Ucraina, preferiamo farci dondolare.
Da hombre qual era, fu lui stesso a dirci di cosa soffriva: di leucemia, porca miseria. Venne ricoverato al Sant’Orsola, tornò in panchina, lo ricordo al Bentegodi col berretto, la prima volta del «dopo», ricadde, risorse, fino a un esonero che sapeva di classifica ma anche di ospedale.
Aveva 53 anni. Uno di noi, Terzino, battitore libero, un sinistro che abbiamo decorato con aggettivi bellici, tanto per rimanere in tema: esplosivo, dinamitardo. Le sue punizioni erano cannonate nel senso letterale e letterario della parola. Legò il nome, la malizia e le risorse all’epoca d’oro della Stella Rossa di Belgrado, con la quale vinse la Coppa dei Campioni – a Bari, contro il Marsiglia – e la Coppa Intercontinentale, sempre nel 1991. In Italia, ha giocato per Roma, Sampdoria, Lazio e Inter, laureandosi campione con le aquile di Sven-Goran Eriksson, nel 2000, e con l’Inter, a tavolino, nel 2006. E poi, ancora con la Lazio, una Coppa delle Coppe, l’ultima della serie, nel 1999, e una Supercoppa d’Europa. Più una pila di coppe domestiche tra Lazio e Inter (fu spalla di Roberto Mancini).
Ha allenato Bologna, Catania, Fiorentina, Serbia, Sampdoria, Milan, Torino, Sporting Lisbona (nove giorni, record dei record), ancora Bologna. Entrò nel ballottaggio dei tecnici cui la Juventus aveva pensato per rimpiazzare il fuggiasco Antonio Conte nell’estate del 2014. Nato nella tragica Vukovar, figlio di madre croata e padre serbo, non ha mai porto l’altra guancia. E’ stato duro, rude. Testimone di una fine, la Jugoslavia, e di un inizio, la Serbia e il resto. Ma sempre sé stesso. Un valore e un prezzo. Aveva occhio (nel Milan, lanciò un bebé di nome Gigio Donnarumma), praticava il calcio insegnatogli dalla vita: attacca, se vuoi difenderti; difenditi, se vuoi attaccare.
Avrebbe fatto sue le parole che Philip Roth, grande scrittore americano, suggerì al suo biografo, Blake Bailey: «Non voglio che mi riabiliti. Solo che mi rendi interessante».
RIP, Sinisa.
Riposa in pace.
Era meglio lasciare stare che scrivere un articolo su uno che come uomo non merita tutta questa attenzione.
Stramaledetto cancro, in ogni sua forma.
Gli sia lieve la terra.
addio Sinisa, avversario e uomo leale
Rip, grande mister.
mi è sempre stato sulle balle da giocatore, anche per le squadre in cui ha militato. ho molto apprezzato la fierezza con cui ha difeso il suo essere Jugoslavo, prima che serbo. Anche contro le demagogie di noi invasori.
io la guerra l’ho vissuta dall’Italia, cercando di aiutare quanta più gente possibile. Una volta comprai il Messaggero. In prima pagina c’era la foto di tre ragazzi morti “vittime dei cetnici serbi”. Ma uno di loro era un mio ex compagno di classe. Un serbo. I serbi hanno fatto schifo, come anche i croati. Ma la storia è sempre scritta dai vincitori. Quindi, gli unici colpevoli siamo noi”.
A far discutere, in particolare, il suo rapporto con Zeljko Raznatovic, noto come Arkan. “Quando io giocavo nel Vojvodina – racconta – al termine di una partita combattuta l’avevo insultato non sapendo chi fosse. Quando mi ingaggiano alla Stella Rossa, mi convoca nella sua villa. Pensavo mi volesse ammazzare. Invece fu gentile, affabile. ‘Qualsiasi cosa ti serva, Sinisa, sai che puoi venire da me. Ti lascio il mio telefono’. Nei miei anni a Belgrado l’ho frequentato per circa 200 sere all’anno. Diventammo davvero amici. Quando morì, pubblicai il famoso necrologio che mi ha attirato tante critiche per il mio amico Zeljko, non per il comandante Arkan, capo delle Tigri. Non condividerò mai quel che ha fatto, e ha fatto cose orrende. Ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, di quel che sono stato. Altrimenti sarei un ipocrita”.
mi spiace, come sempre quando se ne va uno della grande famiglia del calcio, a maggior ragione un uomo di 53 anni. All’epoca del suo sostegno alla tigre Arkan mi fece inorridire, ma poi spiegò bene il contesto nel quale era cresciuto a dimostrazione che poi scelte personali di coerenza, vanno comunque rispettate. Un grande abbraccio a lui ed alla famiglia.
Grande Sinisa, a Catania ha fatto mezza stagione pazzesca : prende la squadra a dicembre da penultima, perde la prima partita, in casa col livorno (ultimo), e da li riparte ! vince con noi a Torino e non si ferma più, certo la Juve del 2010 non era certo uno squadrone, ma a marzo fa godere mezza Sicilia con un 3-1 alla squadraccia di milano che dopo poco avrebbe vinto scudetto,coppa e champions.