Toscano e vulcano

Roberto Beccantini2 gennaio 2025Pubblicato in Per sport

Rispondeva sempre, agli auguri di Natale. Questa volta no. E allora ho temuto che. Aldo Agroppi aveva 80 anni. Ci ha lasciato il 2 gennaio, lo stesso giorno in cui – nel 1960 a Tortona – spirò Fausto Coppi. Debuttò in serie A il 15 ottobre 1967, Toro-Sampdoria 4-2, la domenica della tragedia di Gigi Meroni. E dai granata se ne andò, spintovi da Gigi Radice, nell’estate del ‘75, proprio alla vigilia della stagione dello scudetto. Tu chiamalo, se vuoi, destino.

Toscano di Piombino, mare e navi, mediano di corsa e marcatura, 15 reti (tre pure nei derby), i baffetti a rendere british il piglio e il puntiglio. Aldo numero sei e Giorgio Ferrini, il capitano, numero otto. Quando il Toro era toro, sul serio.

Da ragazzo, sivoriano; poi ribelle e anti Juventus, anti palazzo, anti (quasi) tutto. Non ha mai perdonato a Marcello Lippi, toscano di Viareggio, la mancata confessione del gol che, in un Sampdoria-Toro 2-1 del 12 marzo 1972, l’arbitro, Enzo Berbaresco di Cormons, prima convalidò e poi annullò. Diluviava, il campo era butterato di fango e pozzanghere, non c’era il Var, la palla mi parve dentro, tutta, pur tra le ombre di una mischia così omerica. Classifica finale: Juventus 43, Milan e Toro, il Toro di Gustavo Giagnoni e il suo colbacco, 42.

Vinse 2 Coppe Italia, chiuse a Perugia, disputò 5 partite in Nazionale, fece l’allenatore – persino della Fiorentina – ma capì che non era il suo mestiere: Daniel Passarella lo salvò da una rissa accesa dai legionari di Giancarlo Antognoni. E una omessa denuncia, a Perugia, gli costò quattro mesi di squalifica nell’ambito del Totonero-bis.

Troppo sanguigno e troppo soggetto agli agguati della depressione, viveva il calcio da ultimo dei Mohicani. Ha scritto un libro «Non so parlare sotto voce» (Cairo editore, 2017) che fin dal titolo ci dice tutto di lui, della sua lingua, del suo pane al pane. Al diavolo il dolciastro dei salamelecchi e il calduccio dei cori. Detestava l’Ego di certi imbonitori, da José Mourinho in giù, rivendicava lo «ius» del campo.

Veniva da lontano. Non era un frustrato. Era una frusta.

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