Decidere di non decidere. L’incompetenza del Consiglio federale è la sintesi di una classe di dirigenti senza classe (e non solo). A proposito: parlo di una casta che, in occasione del commissariamento della Federsci, ha tirato fuori dal sarcofago una mummia. La solita: Franco Carraro.
Personalmente, non avrei mai assegnato lo scudetto del 2006, così come non fu mai «distribuito» il titolo del 1927. Ciò doverosamente premesso, avrei rispettato qualsiasi decisione, purché tale fosse: Inter, lo scudetto rimane tuo; Inter, restituisci lo scudetto.
Niente, invece. Se non gli immancabili «petardi» di una Juventus che lo avrebbe voluto indietro: una boiata pazzesca. Un conto sono gli aggettivi, e un conto gli attributi. Giancarlo Abete sfoggia quelli e rinuncia a questi. Il presidente si era solennamente impegnato: 1) l’etica non va in prescrizione; 2) niente stampelle (con allusione ai tre saggi, o tre paggi?, che incorniciarono la scelta del professor Guido Rossi). Una persona con una dignità appena appena normale, al suo posto, si sarebbe già dimessa. Non tanto, ripeto, per non aver preso la via che avrei voluto prendesse, ma per non aver preso nessuna via.
L’Italia è il Paese del «campa cavillo». Esperti del ramo hanno detto sì alla revoca, altri luminari hanno detto no. Penso a San Dulli: un gigante, nell’estate del 2006, con la sua corte federale e i suoi fendenti (un solo bersaglio mancato, Carraro: quando si dice il destino); un nano, oggi, che considerava il consiglio «competente».
Un taglio netto, di qua o di là , avrebbe giustificato la saliva dell’invettiva da parte degli sconfitti. E comunque: più rispetto che disprezzo. Parafrasando il rumore dei nemici caro a José Mourinho, la fuga dal verdetto privilegia, viceversa, la saliva dello sputo, che sempre accompagna il rumore dei vigliacchi.