Una Signorina del diavolo

Roberto Beccantini18 gennaio 2025

Senza harakiri, senza rimonte. E allora: dal 2-1 di Riad pro Milan al 2-0 pro Juventus dello Stadium. Lo 0-0 dell’andata fu un inno alla noia, stavolta invece ci si è mossi, ci si è scossi. Potesse, Thiago giocherebbe sempre con Zirkzee e altri dieci (ma non Vlahovic). L’olandese è finito a Old Trafford e così non gli resta che Nico. Più altri dieci, naturalmente: quelli ci sono. Tutti all’altezza delle esigenze e delle emergenze: in particolare, Mbangula.

E il Diavolo? Le assenze, d’accordo (ma pure Madamin): c’è dell’altro, sopra («sotto», non m’interessa). La versione di Sergio contemplava primi tempi da suorine e secondi da vamp. L’esatto contrario. Metà match equilibrato, al netto del possesso, una paratona di Di Gregorio su Leao, una parata di Maignan su Yildiz. E l’altra metà da truppe accerchiate e soverchiate. Una Caporetto.

Alzi la mano chi, al cambio Yildiz-Weah, non ha sacramentato. Fitta a un adduttore. Il turco se n’era stato buono buono a destra, nel cortile di McKennie, rifornito dalle sventagliate di Locatelli, uno dei «best». Era a sinistra che Mbangula ubriacava Emerson Royal, là dove Cambiaso fungeva da lucchetto mobile.

Weah, dunque. E la ripresa. Venti-venticinque minuti da pugno sul tavolo, con una aggressività che avrebbe commosso le beghine di Fusignano. E una manovra verticale, non più (solo) orizzontale. Maignan si immolava su Weah e Koopmeiners (uffa), quindi – dal 19’ al 24’ – la rete di Mbangula, complice Emerson Royal, e il raddoppio del figlio di George, imbeccato da Thuram. Sì, gli dei hanno baciato il tiro della sterzata, ma risultato e scarti sono assolutamente meritati.

Theo? Leao? Scomparsi, letteralmente e brutalmente. Chissà Cassano. La Juventus mi era piaciuta già a Bergamo. La «novità» è che, dopo l’1-0, non ha mollato l’osso.
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Al dente

Roberto Beccantini15 gennaio 2025

Non avrei tolto Lautaro, concessionario di un gol, di sponde e di recuperi, ma Inzaghi non è certo diventato una schiappa per questo rilievo da sofà. Piuttosto: Inter-Bologna 2-2. Partita ardente e al dente, sull’onda di Bologna-Roma 2-2 e Atalanta-Juventus 1-1. I campioni restano favoriti (per me), anche se il pareggio li lascia a tre punti dal Napoli (con una Firenze da spendere).

Tanto per cominciare: zero ammoniti. Scherzetto o Pairetto? E poi gli stili: differenti, ma non indifferenti. Italiano va matto per il palleggio di centrocampo, a confondere i dirimpettai, e il pressing cadenzato, ora rock ora liscio. Si aggiudicano, i suoi, il primo quarto d’ora con il Sommer-più-palo di Moro e la zampata di Castro, in estirada e nella pancia di un’area gonfia di stinchi.

Simone: attesa sulla tre quarti, e via col vento appena Barella, di corsa, e Zielinski, di tocco, squarciano la tela dei rivali. Non a caso, l’1-1 e il 2-1, firmati da Dumfries e dal capitano, affiorano da sgargianti «transpiedi», sintesi tattica di transizioni e contropiedi, nella speranza di non rigare la suscettibilità né delle une né degli altri.

Mancavano Calhanoglu e Mkhitaryan, fior di colonne, ma io sono giocatorista e, dunque, non faccio testo. Una volta in vantaggio, e per giunta al 45’ + 1, minuto mai banale, avrei scommesso su una gestione meno turbolenta. «Colpa» del Bologna. Sempre saldo sul ring: persino alle corde, quando ci finiva. Parava Skorupski, salvava Sommer: ognuno, alla sua maniera, ci provava. Sino alla sciabolata di Holm (complice Bastoni), dopo che Orsolini aveva spremuto Dimarco, cruciale nei blitz permeabile nelle chiusure.

I cambi si limitavano a vidimare il risultato. Se l’Inter ha pagato il grigiore di mezzo e i ruttini della difesa, il Bologna ha strameritato di uscire da San Siro com’è uscito: tra gli applausi di chi se ne intende.

Piccolo pari avanti

Roberto Beccantini14 gennaio 2025

Lugete o Veneres Cupidinesque, perché sì, è il tredicesimo pareggio di Madamin, ma questo – se non altro – non è di latta. L’ha conteso, con ardore, all’Atalanta, e per giunta a Bergamo. Sia chiaro: con il solito «format» – in vantaggio, rimontata – ma ripeto, sono state ben altre le X di cui arrossire (Cagliari, Parma, Lecce, Venezia).

Gasp è lì dal 2016: si sente. Thiago dall’estate 2024: si vede. Equilibrio per un tempo, con la Dea che spinge e gli avversari che la pungono. Nella ripresa, big bang e bagliori da notte di San Silvestro. Occasioni di qua, occasioni di là, voli di Carnesecchi e Di Gregorio, palo di Kalulu (di testa, su corner), rete dello stesso Kalulu, imbeccato da McKennie («falso» dieci), poi Mottiani in trincea sino alla torsione aerea di Retegui: alla Bettega? alla Riva? alla Pulici? alla Boninsegna? Ognuno scelga il suo referente e così sia.

Retegui: 13 reti, capocannoniere solitario. Era entrato, al 65’, per un De Ketelaere crepuscolare (capita). I cambi. Gasp si è giocato Samardzic, il Chapita, Bellanova, Hien e Zaniolo. Hugeux (vice di Thiago, squalificato) non più di Douglas Luiz, Mbangula e Fagioli. Meditate, pazienti, meditate.

Risultato in bilico sino agli ultimi spari, di Zaniolo e Yildiz, ora qua ora là come sempre dovrebbe (o dovrebbero suggerirgli). La sentenza è rimasta a lungo nascosta nella giungla dei ribaltoni. Con i portieri, segnalo Gatti e Kalulu, Locatelli e Thuram, gli strappi di McKennie. Di «Flopmeiners», fischiatissimo, rammento una «parata» su Lookman: stop. E dell’ambulante Nico, un sinistro dal limite. Fuori ruolo, ok, ma insomma. Sul fronte opposto, preziose le spallate di Kolasinac, le serpentine di Samardzic e, ça va sans dire, il rambismo di Retegui. Si era cominciato senza centravanti. Poi uno è apparso. Non era Vlahovic.