Anatomia di un disastro (comunque)

Roberto Beccantini25 ottobre 2022

Era impossibile, anche se molti fingevano di non saperlo. Lisbona è stata la sentenza, non il processo. Le prove, tutte contro, erano già state vagliate all’andata e ad Haifa, il giorno della resa più umiliante. Frustrata e frustata, la Juventus esce, così, nella fase a gironi di Champions. Ad Allegri non era mai successo. A Madama non capitava dalla neve di Istanbul, dicembre 2013, 1-0 per il Galatasary del Mancio, gol di Sneijder, ex interista, per nemesi, come Joao Mario. Era la Juventus di Conte.

Non inganni lo scarto, medicato nel finale, quando Allegri, per salvare la faccia, non poteva che mandare l’asilo allo sbaraglio. Scritto che nemmeno l’Europa League è sicura, la partita del «da Luz» è stata poco meno che un volo radente delle Aquile, imbattute da inizio stagione e (stra)meritatamente qualificate. Non è nella città di Pessoa e di Eusebio, di «Sostiene Pereira» e del fado, che un Allegri «vecchio» e spremuto si è arreso. Gli mancavano un sacco di titolari, e questo va detto. Se mai, ha cannato a preferire Kean a Milik, visto il tipo di partita. Ma sarebbe sbagliato, profondamente sbagliato, aggrapparsi ai singoli e ai singoli episodi. Certo, i «titolarissimi» sarebbero serviti e come, ma è con il Maccabi che la formazione schierata non poteva sciogliersi in quel modo. Un modo ancor ci offende.

Il Benfica è una squadra cui il tedesco Schmidt ha inculcato una concretezza che non riga il palleggio né tradisce le radici. Subito in vantaggio (Antonio Silva, 18 anni, in un testa a testa con Gatti, su cross di Enzo Fernandez, 21), subito padrona, perché al di là delle seduzioni statistiche (sarebbe bastato un pareggio), uno stadio pieno merita sempre partite piene (o quasi). Con Gatti (sic) al posto di Alex Sandro, l’ultimo degli ultimi infermi, la Juventus raschiava il fondo dell’orgoglio. La tenevano in piedi i cross di Kostic.
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Ma il cielo è sempre più blu

Roberto Beccantini23 ottobre 2022

Non è che la bellezza del Napoli si sia dissolta; o, peggio, fosse stata un’allucinazione di noi scribi. Certe partite nascono brutte, sporche e cattive: bisogna adeguarsi. La Roma di Mourinho era una barricata ambulante. Aspra. Grigia. Feroce. Non ha mai tirato in porta. Il Napoli sì. Ecco la prima differenza. La seconda è il gran gol che Osimhen ha strappato allo zero a zero di una lunga e noiosa sparatoria. Lancio di Politano, appena entrato (ah, i cambi), Osimhen ha addosso Smalling, fin lì mister trincea, lo semina ed esplode un diagonale di destro che nemmeno l’ultimo dell’anno a Posillipo. Bum. Zero a uno. Gioco (poco), partita, incontro.

Spalletti, con Politano, aveva sguinzagliato anche Gaetano, un ragazzo di talento, sbocciato a Cremona. Gaetano, non Raspadori. Sono i misteri del calcio che ci inseguiranno sempre, e sempre ci ecciteranno. A San Siro, con il Milan, era stato il turno di Zerbin. Forze fresche. Segni di coraggio. Era l’81’, quando il sasso di Osimhen ha infranto la vetrina di un Rui Patricio forse rassegnato. E così il Napoli vola anche quando corre e sgomita, gli raddoppiano e limitano Kvara o c’è un Pellegrini che pedina Lobotka. La guerriglia, molto fisica, non poteva che essere decisa da due gladiatori, nel bene e nel male: il duello fra Osimhen e Smalling.

La Roma senza Dybala era una pagina che aveva bisogno, al massimo, di attenzione, non di una traduzione. Abraham poco, Zaniolo (l’unico) qualche sgroppata, le fasce protette e, per questo, poco elastiche. Ripeto, zero parate di Meret: a meno che non mi sia distratto. Mentre, sull’altro fronte, gli sprechi di Juan Jesus e Osimhen. Lazio, Milan, Roma: sono le tre grandi che il Napoli, soffrendo il giusto, ha battuto in trasferta. Un pugno allo stomaco del campionato.

Per concludere, due parole sul rigore concesso da Irrati
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«C’era Guevara», piacere

Roberto Beccantini23 ottobre 2022

Per un’ora (e il resto, mancia), la Lazio di Sarri non si limita a dominare o governare l’Atalanta. Fa di più, molto di più: cancella dal campo l’idea stessa che avevamo del Gasp e della sua dottrina. Mancava Immobile, infortunato. Il centravanti titolare. Il cannoniere nazionale. Bene. Felipe Anderson falso nueve, Pedro a destra e Zaccagni a sinistra, ma occhio: a destra o a sinistra come in politica, o come cantava Gaber, si fa per dire. Morale: gol-lampo di Zaccagni, dal cuore dell’area, su cross teso di Pedro; in avvio di ripresa, lancio a Marusic, palla a Felipe, controllo e gol: 0-2. Sarriball allo stato puro e, per fortuna, impuro: da libidine bukowskiana. Pressing, triangoli, dai e vai. Con Vecino centravanti, Milinkovic-Savic ovunque, Lazzari ala e solo il portiere legato a un ruolo, a una riga. Per chi non vive di moviole, uno spettacolo.

La Dea non ci ha capito, letteralmente, un tubo. Marcando a uomo (in avanti, ma a uomo), non sapeva chi prendere: tanto che Koopmeiners, nell’azione del raddoppio, era finito stopper su Felipe. Sulle palizzate, giganteggiavano Romagnoli e Casale. Non ricordo una parata di Provedel che si possa chiamare tale. Allo scoccar del 60’, i cento all’ora sono diventati sessanta, quanto bastava per contenere l’ingresso, disperato, di Zapata, visto che Lookman e Muriel (espulso, addirittura) erano finiti da tempo agli arresti domiciliari.

Miglior difesa, Sarri. E un fatturato offensivo quasi a livello Napoli. Il meglio di sé, «C’era Guevara», lo dà spesso, se non sempre, al secondo anno. Lo sapevano tutti. Tutti, tranne uno.