Un romanzo di portieri

Roberto Beccantini26 settembre 2022

Dopo le cinque «lattine» di Moenchengladbach, eravamo tutti morti. Dopo l’1-0 agli inglesi e il 2-0 di Budapest, tutti risorti. E’ il calcio, con i suoi recessi e i suoi eccessi. Mondiali col binocolo ma, a titolo di parziale consolazione, la fase finale della Nations League, questo torneo-mancia strappato niente meno che a Ungheria, Inghilterra e Germania.

La mano di Mancini, i guanti di Donnarumma. Sì, perchè l’ordalia della Puskas arena è stata anche un romanzo di portieri. Gulacsi, il peggiore. L’azzurro, il migliore. Il magiaro ha aperto con un quasi harakiri e poi è andato giù di frittata, con Nagy. Certo, il pressing di Gnonto. Come no, l’adrenalina di Raspadori: freddo nel non tirare subito, caldo nel dribbling e nello sparo. L’Italia era partita a petto in fuori, con l’attacco «piccolo»: scelta che imponeva triangoli, palla a terra, accompagnamento e avanzamento in branco.

Rossi, la cui gavetta insegna più di tante cattedre, rinunziava alla costruzione dal basso e invitava i suoi a correre in avanti. Ne usciva una trama che, per un tempo, non sfuggiva alla penna dei nostri. Alla ripresa, cominciava a esserci bisogno del Gigio. Prima e dopo il raddoppio, splendido, di Dimarco, su azione Barella-Cristante. Volava di qua e volava di là, Donnarumma: non proprio politically correct nelle uscite, ma fra i pali una trincea. A ruota Dimarco, Cristante e Di Lorenzo, con Bonucci a suo agio, perché ben coperto, anche nei periodi di catenaccio. Dal taccuino affiorerebbe, birichino,un rigore di Bastoni su quel ciccione di Adam, ma l’azzurro ha questo di bello, unisce destra e sinistra (satira politica).

Per la cronaca, Dimarco, terzino-fionda, ha firmato il 1.500° gol della Nazionale. I numeri nascondono sempre qualcosa. E la storia del calcio si perde nella notte dei tempi. Lo esportarono gli inglesi, fermi al Mondiale del ‘66. Loro, i maestri retrocessi.

Sotto «controllo»

Roberto Beccantini23 settembre 2022

Italia-Inghilterra è sempre «lei» anche così, fra cicatrici, rimorsi e tormenti. Noi, alla ricerca del centravanti perduto (fuori persino Immobile) e di qualcosa che, dopo la pugnalata macedone e la batosta di Moenchengladbach, assomigliasse almeno a una zattera; loro, in viaggio di studio e con la testa non sempre ai testi. L’1-0 ci sta tutto. Anzi: la parata di Pope su Gabbiadini e il palo di Dimarco – a fronte di un paio di petardi di Kane – avrebbero giustificato, come minimo, il raddoppio.

Avevano più fame, i nostri. Più di Foden, di Bellingham (averne, comunque), di Sterling, dello stesso Kane. In piena emergenza, il Mancio aveva varato un 3-5-2 ad assetto variabile che si è rivelato solida stampella. Pressing, coraggio, errori, sbadigli: a conferma di quello che raccontava Charlie Brown a Snoopy, «Un giorno moriremo tutti, sì: ma tutti gli altri giorni no».

Migliore in campo, Bonucci. Poi Dimarco, Di Lorenzo e Raspadori. Il gol merita un capitolo a sé. Unisce lavagne e lagne, il calcio di ieri e il calcio di sempre. Lancio lungo del capitano. Splendido. A scavalcare le trincee di Southgate (mah). Il destinatario è Raspadori. Come, agli Europei del 2016 contro il Belgio, era stato Giaccherini. Le parabole così sospese non piacciono ai puristi del tiki-taka (e, che io sappia, nemmeno a Sacchi: «Franchino [Baresi], ricordati che quando fai un lancio lungo mi dai un dispiacere»); a me sì, invece. E pure tanto. «Raspa», dunque. Il controllo vale, da solo, mezzo gol. Morbido, di pennello. In assoluto e, a maggior ragione, perché dipinto in mezzo a un nugolo di sentinelle distratte, ma corpose. E il tiro di destro, a giro. Imparabile.

Una vittoria a Budapest, lunedì, ci spalancherebbe addirittura la fase finale della Nations League, gli unici spiccioli che ci sono rimasti in tasca. Ma che lancio, quel lancio. E che controllo, quel controllo.

Meriti e segnali

Roberto Beccantini18 settembre 2022

Senza Leao e Osimhen, con Krunic e Raspadori, poteva vincere il Milan, ha vinto il Napoli: 1-2. Più Meret che Maignan, rigore di Politano, poi Giroud e Simeone, di testa, uno dei cambi. Meriti e segnali, Spalletti gongola. Partita a scacchi per un tempo, ripresa di stampo britannico, a tutto gas, con rare soste ai box. Due traverse, i campioni: e quella di Kalulu, agli sgoccioli, clamorosa. Un monumento a «Robotka», ad Anguissa, a Mario Rui, a Kvara, che procura il penalty dopo aver fustigato Kjaer e Calabria. Il giallo del terzino aveva indotto Pioli a inserire Dest: sua la frittata che non sfuggirà al Var.

Messias e Brahim Diaz aiutano il Diavolo a crederci. De Ketelaere avrebbe bisogno di onde più quiete, ma anche così il suo violino partecipa, con Theo, all’azione del pari. Per vincere, bisogna rischiare. E dal momento che entrambi hanno rischiato, significa che entrambi volevano vincere. Non so, sinceramente, cosa possa rimproverarsi il Milan: se non la mira sotto porta. Da parte sua, il Napoli ha imparato a soffrire. Da come si muove in campo, sembra che il mercato non l’abbia nemmeno sfiorato. E invece la società fece la rivoluzione.

Roma-Atalanta 0-1. Non è più la Dea estrema ed estremista della scapigliatura. E’ una Dea «di centro», ringhia e soffre, subisce e colpisce. Splendido il gol di Scalvini, classe 2003. Il Gasp ha saputo adattarsi: via la fantasia del Papu e di Ilicic, sotto con una combriccola di scout che sa cavarsela persino nelle selve più fitte. Priva di Dybala (i flessori, ahi), la Roma molto crea e molto spreca (con Abraham, soprattutto). Zaniolo si mangia campo e avversari, Mou reclama rigori inesistenti
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