Le volpi del deserto

Roberto Beccantini19 novembre 2022

Comincia domani, con Qatar-Ecuador, la fase finale della Coppa del Mondo, sino al 1970 intitolata a Jules Rimet. La prima in un Paese arabo, la prima in autunno (per noi europei), la terza senza l’Italia (dopo 1958 e 2018), l’ultima a 32 squadre: dal 2026 saranno 48 e si giocherà in Canada, Messico e Stati Uniti. Pecunia non olet. Il pianeta ha da poco toccato gli 8 miliardi di abitanti; il Mondiale rimane, però, una lobby esclusiva. Le edizioni in archivio sono già ventuno, ma non più di otto le nazioni che ne decorano la bacheca: Brasile 5, Germania e Italia 4, Argentina, Francia e Uruguay 2, Inghilterra e Spagna 1. Dal 1978, anno in cui si affacciò l’Argentina di Mario Kempes, si sono registrati appena due «intrusi»: la Francia di Zinedine Zidane nel 1998 e la Spagna delle «sartine» nel 2010.

Sarà l’ultimo tango di Leo Messi, 35 compiuti, e di Cristiano Ronaldo, 38 a febbraio. La Pulce vi arriva dalla Versailles del Paris Saint-Qatar (a proposito), Cierre travolto da un Ego così isterico e protervo che il Manchester United sta meditando di cancellarlo. La mia favorita è l’Argentina, il cui «padrone» sembra finalmente evaso dalla prigione dentro la quale lo avevano relegato gli scabrosi paragoni con Diego Maradona e gli imbarazzanti dislivelli di rendimento fra Barcellona e «Seleccion».

Poi il Brasile di Neymar, Gabriel Jesus e della Maginot juventina; quindi la Francia di Kylian Mbappé, regina a Mosca, anche se le mancheranno mezzo centrocampo (N’Golo Kanté, Paul Pogba) e Sua maestà il pallone d’oro, Karim Benzema. Più distanti, ma non troppo, Germania, Belgio (eterno incompiuto: esplode o implode), Spagna e Portogallo (vedi alla voce Cristiano). Hans-Dieter Flick e Luis Enrique sono a caccia di gol:
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E Max incartò Mau

Roberto Beccantini13 novembre 2022

Sembrava, almeno all’inizio, una sfida tra due calvi che si contendono un pettine. Allegri, invece, aveva in tasca un parrucchino: Kean. Decisivo già giovedì, a Verona, su assist di Rabiot. E due volte, addirittura, allo Stadium: il gol dell’1-0, al crepuscolo del primo tempo, con un superbo lob su invito di Rabiot (ancora); la rete del 2-0, in avvio di ripresa, di tap-in, su cambio-campo di Locatelli e botta di Kostic deviata da Provedel. E così Juventus tre Lazio zero, perché poi Chiesa, entrato con Di Maria, ha spalancato la porta a Milik.

Scritto che il peggiore è stato colui che, di solito, è il migliore, Milinkovic-Savic, il migliore in assoluto non lo avrei mai tolto: alludo a Kean. Ma anche senza Moise, Madama ha continuato a controllare/dominare la trama. E allora, chapeau mister. Si trovavano di fronte i bunker più blindati, formazioni crivellate d’infortuni. La Juventus ha trovato in Kean una lama alternativa a Vlahovic. La Lazio non ha trovato un vice Immobile (se non le bollicine di Pedro). E’ mancata proprio in area, l’Aquila, là dove Bremer, Gatti (pur ammoniti) e Danilo hanno sigillato ogni pertugio. Max ha incartato Mau con il 3-5-2, lo schema dell’ultima (e provvidenziale) svolta. Sei vittorie di fila, terzo posto. E giovani come Fagioli (e Miretti) pronti al momento giusto. Fatta di necessità virtù: e di virtù necessità.

I ritmi lenti hanno garantito quelle soste e quelle fiammate che magari, su altri schermi, sono il pane quotidiano. E’ stata una Juventus globalmente vicina alla ripresa con l’Inter. Una squadra fisica e abbastanza tecnica. Attorno a Danilo sono cresciuti (molto) in molti: Kostic, Rabiot, Locatelli, Bremer. Kean a parte.

Era l’ultima del 2022. Si riprenderà il 4 gennaio, con Inter-Napoli. Dal quale la Juventus resta a dieci punti. Ma non è più la cenere di Monza e di Haifa.

Fate un po’ voi

Roberto Beccantini12 novembre 2022

In carrozza, negli ottavi di Champions, da primo del girone. Tiranno del campionato, con 11 punti sulle seconde che domani, nella peggiore delle ipotesi, torneranno 8. Uno in più della Juventus di Conte che, nel 2014, stabilì il record assoluto con 102. Undici successi di fila, l’ultimo per 3-2 all’Udinese. Il miglior attacco e la terza miglior difesa. Numeri, maestro: e musica, naturalmente.

Sto parlando del Napoli di Spalletti: quello che a Roma aveva «distrutto» Totti dopo averlo inventato «falso nueve»; quello che sbraca sempre nei ritorni; quello che, ogni tanto, si fa ombra e litiga con i soli. Siamo appena a metà novembre, e per salire sul suo carro la ressa è tale che i bagarini hanno già triplicato il prezzo dei biglietti. Paisà, that’s amore.

Immagino i rosari di scongiuri, di sfregamenti, di toccamenti, ma siamo di fronte a una squadra che gioca sempre, spesso bene, e ha spiazzato tutti: di sicuro, il sottoscritto. En passant, De Laurentiis non è più «’o pappone», ma pure questo era nei patti. Ci si aggrappa alle tende fragili del «prima o poi crollerà», slogan che per i grandi resta una medaglia d’oro; a un avversario che non vince da 7 gare e che, già sotto di un gol, aveva perso Deulofeu, il suo fiore all’occhiello; alla flessione e alle turbolenze dell’ultimo quarto d’ora, esacerbate dalle reti di Nestorovski e Samardzic. Restano i fatti: non ce n’è per nessuno.

Osimhen è la natura della forza del Napoli, oltre che una forza della natura, come testimoniano i 9 gol e tutto il resto. Ha siglato il primo, di testa, su parabola di Elmas, e avviato il secondo, in contropiede, poi rifinito da Lozano e firmato da Zielinski. Di ripartenza anche il terzo, da Anguissa ad Elmas. Contropiede: un’arma, non l’arsenale intero. Un’arma sempre di moda (citofonare Manchester City-Brentford 1-2). Può essere tatticamente «casto», fesso e noioso un tecnico nato dove nacque Boccaccio?