Ma il cielo è sempre più blu

Roberto Beccantini23 ottobre 2022

Non è che la bellezza del Napoli si sia dissolta; o, peggio, fosse stata un’allucinazione di noi scribi. Certe partite nascono brutte, sporche e cattive: bisogna adeguarsi. La Roma di Mourinho era una barricata ambulante. Aspra. Grigia. Feroce. Non ha mai tirato in porta. Il Napoli sì. Ecco la prima differenza. La seconda è il gran gol che Osimhen ha strappato allo zero a zero di una lunga e noiosa sparatoria. Lancio di Politano, appena entrato (ah, i cambi), Osimhen ha addosso Smalling, fin lì mister trincea, lo semina ed esplode un diagonale di destro che nemmeno l’ultimo dell’anno a Posillipo. Bum. Zero a uno. Gioco (poco), partita, incontro.

Spalletti, con Politano, aveva sguinzagliato anche Gaetano, un ragazzo di talento, sbocciato a Cremona. Gaetano, non Raspadori. Sono i misteri del calcio che ci inseguiranno sempre, e sempre ci ecciteranno. A San Siro, con il Milan, era stato il turno di Zerbin. Forze fresche. Segni di coraggio. Era l’81’, quando il sasso di Osimhen ha infranto la vetrina di un Rui Patricio forse rassegnato. E così il Napoli vola anche quando corre e sgomita, gli raddoppiano e limitano Kvara o c’è un Pellegrini che pedina Lobotka. La guerriglia, molto fisica, non poteva che essere decisa da due gladiatori, nel bene e nel male: il duello fra Osimhen e Smalling.

La Roma senza Dybala era una pagina che aveva bisogno, al massimo, di attenzione, non di una traduzione. Abraham poco, Zaniolo (l’unico) qualche sgroppata, le fasce protette e, per questo, poco elastiche. Ripeto, zero parate di Meret: a meno che non mi sia distratto. Mentre, sull’altro fronte, gli sprechi di Juan Jesus e Osimhen. Lazio, Milan, Roma: sono le tre grandi che il Napoli, soffrendo il giusto, ha battuto in trasferta. Un pugno allo stomaco del campionato.

Per concludere, due parole sul rigore concesso da Irrati
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«C’era Guevara», piacere

Roberto Beccantini23 ottobre 2022

Per un’ora (e il resto, mancia), la Lazio di Sarri non si limita a dominare o governare l’Atalanta. Fa di più, molto di più: cancella dal campo l’idea stessa che avevamo del Gasp e della sua dottrina. Mancava Immobile, infortunato. Il centravanti titolare. Il cannoniere nazionale. Bene. Felipe Anderson falso nueve, Pedro a destra e Zaccagni a sinistra, ma occhio: a destra o a sinistra come in politica, o come cantava Gaber, si fa per dire. Morale: gol-lampo di Zaccagni, dal cuore dell’area, su cross teso di Pedro; in avvio di ripresa, lancio a Marusic, palla a Felipe, controllo e gol: 0-2. Sarriball allo stato puro e, per fortuna, impuro: da libidine bukowskiana. Pressing, triangoli, dai e vai. Con Vecino centravanti, Milinkovic-Savic ovunque, Lazzari ala e solo il portiere legato a un ruolo, a una riga. Per chi non vive di moviole, uno spettacolo.

La Dea non ci ha capito, letteralmente, un tubo. Marcando a uomo (in avanti, ma a uomo), non sapeva chi prendere: tanto che Koopmeiners, nell’azione del raddoppio, era finito stopper su Felipe. Sulle palizzate, giganteggiavano Romagnoli e Casale. Non ricordo una parata di Provedel che si possa chiamare tale. Allo scoccar del 60’, i cento all’ora sono diventati sessanta, quanto bastava per contenere l’ingresso, disperato, di Zapata, visto che Lookman e Muriel (espulso, addirittura) erano finiti da tempo agli arresti domiciliari.

Miglior difesa, Sarri. E un fatturato offensivo quasi a livello Napoli. Il meglio di sé, «C’era Guevara», lo dà spesso, se non sempre, al secondo anno. Lo sapevano tutti. Tutti, tranne uno.

E l’Arno mormorò

Roberto Beccantini22 ottobre 2022

E’ la seconda volta che Brahim Diaz segna un gol così. Con la Juventus, con il Monza. Recupera palla a metà campo e parte in tromba. In base agli schemi dovrebbe passarla ai colleghi della scorta. Invece no. Dritto come un fuso, fila in porta e, da terra, morde di sinistro. Ma allora non è proibito? Ventitré anni, è cresciuto fra i banchi del Manchester City e del Real Madrid, beato lui: libero di osare, lontano dagli estremi del calcio «semplisce» e del calcio «scienza». Il raddoppio, in compenso, è più ortodosso, suggerito com’è da Origi, anche se il controllo e la girata di destro sono da applausi, sempre.

Il Milan di Pioli si mangia, dunque, anche il Monza della premiata forneria Berlusconi. E non crediate che sia stato un amarcord fra il romantico e il romanzesco. Sensi, Pessina e Carlos Augusto ci hanno provato, eccome. Tatarusanu è stato all’altezza. Partita gradevole, per ritmo e idee. I campioni a domarla, gli sfidanti a rovesciarla. Le rotazioni in chiave Champions hanno coinvolto persino Leao, che del Diavolo è il forcone e il mantello. Ma la classe è classe, nasconde le distanze tra i reparti, smussa gli spigoli della immanente Zagabria, trascina il popolo. La sassata di Origi, la punizione-wow di Ranocchia, scuola Juventus, e il contropiede della ditta Theo-Leao fissano un 4-1 che, onestamente, sa più di giocate che di «giuoco».

Al Franchi, come sulla ruota di Barcellona, esce di tutto. L’Inter va via sul velluto. Pressing e pugnali: gol di Barella su assist di Lautaro, dribbling e gol di Lautaro dopo lancio di Mkhitaryan. Il tutto, in un quarto d’ora. Fatali gli errori in uscita. La Viola avanza a ragnatela (di passaggi); gli avversari arretrano, sazi. Improvviso, al 33’, il rigore. Entrataccia di Dimarco (da rosso, nemmeno un giallo!) su Bonaventura, incuneatosi a centro area. Il Var richiama un distratto Valeri: non così.
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