Fuochi di Champions. Noblesse oblige, precedenza al Milan. Quando si vince 3-1 al Bernabeu, hai voglia di recitare la cronaca come se fosse una giaculatoria. Devi mettere in preventivo tutto: le occasioni del Real, i tuffi del tuo portiere (Maignan), le mischie, la storia che si attorciglia, il miedo escenico che s’incazza. Il Milan di Fonseca (si può dire di Fonseca? Ormai lo si dice di tutti, tranne uno): con Musah a destra, la mossa (benzina ed equilibrio a centrocampo); e con un Leao, finalmente, a livello Leao. Suoi il tiro, respinto, e l’assist, pennellato, che hanno propiziato i tapin di Morata e Reijnders. Non gli si chiede la luna: si pretende, semplicemente, che giochi «così». Non sempre, per carità , ma un po’ più del quasi mai dell’ultimo scorcio.
La capocciata di Thiaw (su angolo di Pulisic) e il rigore di Vinicius (procurato da Emerson Royal) avevano «calientato» una trama che il fuoco dei duellanti ha sempre reso spasmodica. Perché sì, molti ne potava segnare il Madrid, ma pure il Diavolo. Aggressivo, compatto, reattivo, incisivo: e in difesa, che resti tra di noi, disposto a cinque. Ancelotti veniva dallo 0-4 del Clasico e dalla verguenza del «nessuno a Parigi» per il Pallone d’argento di Vini. A occhio, mi pare che Mbappé tolga spazio a Bellingham e che, in coppia, debbano registrare la mira.
Rimane il risultato: enorme. E adesso, spazio ai dibattiti: immagino che Fonseca, dalla schiappa salvata in Brianza dalla «norma dello svantaggio», sia tornato l’Aladino del derby. Ah, serva Italia. Vi lascio immaginare la ressa attorno al suo carro mesto. Non c’era un’anima, dopo Monza.
Dalla cima Coppi del martedì all’1-1 della Juventus. L’idea di Thiago è giusta, i piedi non sempre (e i cambi proprio no). Il Lilla, tra parentesi, era spolpatissimo e questo accentua i rimorsi, i rimpianti. In Europa, ti chiedono il conto quando meno te lo aspetti.
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