Ma allora si può?

Roberto Beccantini3 aprile 2022

Ma allora si può giocare in un certo modo? Non ricordo un derby così dominato da Allegri eppure 1-0 per l’Inter. I risultatisti saranno furibondi. Ha deciso un episodio agli sgoccioli del primo tempo, un rigorino di Morata su Dumfries «fratello» del pestoncino di Dumfries ad Alex Sandro, all’andata. Un capitolo degno della saga: il Var lo suggerisce a Irrati, Szczesny lo para a Calhanaoglu, sulla respinta la palla carambola comunque in rete. Per me, tutto regolare. Per il Var, no: invasione di De Ligt, bis del turco e stavolta il polacco non si arrampica ai livelli di Hurkacz e della Swiatek.

Bollicine, dunque, ma non di champagne. Un’antologia di wrestling, di imboscate, di veleni. Juventus con il tridente, un valore o un prezzo a seconda di come lo supporti, padrona per una buona mezz’ora e per lunghi tratti della ripresa. Certo, Dybala gironzolante attorno a Brozo non era il massimo, ma anche lui deve darsi una mossa. Traversa-ginocchio di Chiellini, mischioni, presunzione di pericolosità in certi tiri (di Morata, di Vlahovic, di Cuadrado) e da certe situazioni, palo di Zakaria, lo stadio pieno e ringhiante, la caccia sistematica a un penalty risarcitorio (ah, De Ligt). Insomma: ha perso, la Juventus, come tante volte aveva vinto. Persino il pari le sarebbe stato stretto. La nemesi, la nemesi.

L’Inter? Veniva da sette punti in sette partite, non aveva alternative, si è raccolta attorno al rientrante Brozovic, a Skriniar, a un Barella meno vago. Con Handanovic ora muro ora meno. Locatelli, speronato al pronti-via da Lau-Toro, è stato ben surrogato dallo svizzero. Mi è piaciuto persino Rabiot. Se mai, è mancato Vlahovic, non proprio l’Attila che sa essere. Si chiude, così, la striscia di 11 vittorie e 5 pareggi. Resta, come era nei voti, il quarto posto. All’Inter è andata bene: anche per questo, Milan e Napoli permettendo, lo scudetto è sempre lì.

I giocatori, i giocatori

Roberto Beccantini24 marzo 2022

Fuori dai Mondiali per la seconda volta consecutiva. Gli ultimi, nel 2014. L’Italia, campione d’Europa. Sconfitta in casa, a Palermo, dalla Macedonia del Nord, 67a. nella classifica Fifa. Un tiro nello specchio, uno solo, al 92’: di Aleksandar Trajkovski, il nuovo Pandev. Uno di quegli eroi che nascono per caso, di notte, e, in un momento, ribaltano una montagna di attimi. Che, quando ci fa comodo, chiamiamo destino.

Non era un genio, nell’estate del 2021, non è diventato una schiappa oggi. Parlo di Mancini. I giocatori, i giocatori. Chi, se no? Erano in campo, tranne la difesa e Chiesa, tutti i «titolarissimi». Ci hanno dato dentro, hanno raccolto 16 angoli, hanno tirato (Berardi, soprattutto), hanno creato ingorghi pericolosi ma palle-gol pulite, una: regalata dal portiere e buttata da Berardi.

Questi siamo. Il ct ha cambiato e ruotato, ha raschiato il fondo del Brasile (Joao Pedro), ma in campo andavano «loro», non lui. Mancio, all’Europeo, li aveva portati oltre i propri limiti. Ci eravamo illusi che potessero restarci. Il nostro campionato non aiuta: l’edicola ne gonfia il peso netto. La pancia piena, certo. I due rigori sbagliati da Jorginho contro la Svizzera: ma Jorginho è una pedina, appunto, non l’allenatore.

L’ingresso di Chiellini, che con Bonucci aveva lavorato persino alla Juventus in funzione esclusiva del Qatar, non ha portato fortuna. E’ mancata la qualità d’antan. Il dribbling, la mira. Salvo Verratti (che però non segna mai), Florenzi, un po’ Bastoni. Fermo restando Immobile: in Italia, un monsone; in Nazionale, un refolo.

Il contratto del Mancio scade nel 2026. Vedremo. Diranno che non l’hanno seguito, che l’hanno tradito. Forse. E’ bastato un catenaccio per sbatterci fuori. Prendiamocela pure con gli dei, cari o bari a seconda degli interessi. I giocatori, i giocatori.

Peccato

Roberto Beccantini21 marzo 2022

Non è un epinicio e neppure un epicedio. Capisco la Juventus, capisco Paulo Dybala, ognuno ha fatto i propri interessi, la storia fisserà i confini di un addio che, in questi avventurati tempi di guerra, non va drammatizzato né enfatizzato. E’ la vita, dicono quelli che possono ancora permettersela.

Scritto che non è mai stato un leader ed era (diventato) di una fragilità imbarazzante, per sé e per la squadra, ebbene sì: mi dispiace. E’ un numero dieci che ha sbagliato epoca, un chierichetto che, lo sapete, mi ricorda un demonio: Omar Sivori. Per quel sinistro improvviso e scintillante, per quei dribbling felpati e quei calzettoni non proprio alla caccaiola (è vietato, maledetti parastinchi) che, ogni tanto, mi facevano uscire dai rutti del pressing, che restano momenti liberatori e quasi obbligatori, per carità, ma che, insomma, non ho mai trovato eccitanti come un tunnel in cui rifugiarmi.

Paratici lo aveva già piazzato al Manchester United in cambio di Lukaku, e chissà che piega avrebbe preso la storia. Sono un mendicante di emozioni, sono un giocatorista che si ciba di fiamme e non di cerini. Mancano ancora otto giornate e, come minimo, una semifinale di Coppa Italia. Non ho dubbi che l’Omarino onorerà gli spiccioli di contratto come stanno facendo Insigne, già del Toronto, a Napoli, e Kessié, già del Barcellona, al Milan.

Peccato, anche, perché l’intesa con Vlahovic prometteva. Però le pause. Però gli infortuni. Però l’offerta al ribasso. Però la cricca dalla quale si faceva rappresentare. Però. I soldi non sono miei e, dunque, mi fermo. Una carriera sulle montagne russe, fra la doppietta al Barça di Messi e il «ritiro» di Cardiff, contro il Real del marziano, dopo il giallo beccato ai primi graffi.

Da un vecchio «Guerino» ho recuperato ‘sto pezzetto. Ve lo giro.
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