La festa triste

Roberto Beccantini16 maggio 2022

Il guerriero. Il ballerino. L’addio di Chiellini ha schiacciato quello di Dybala in uno Stadium feriale ma festaiolo, con le ragazze della Juventus premiate per il quinto scudetto e il popolo a buttarsi sui ricordi. Giorgio è uscito al minuto 17, come i suoi anni al servizio di Madama, sostituito da De Ligt. Dybala al minuto 77, avvicendato dal ventenne Palumbo. Il laureato è stato una corazza, l’Omarino – 115 gol, 48 assist – uno dei più mancini dei tiri (furtarello da Edmondo Berselli, che così scrisse in onore di Mariolino Corso).

E’ lo sport che coinvolge, è la passione che stravolge. Ognuno ha le sue. Solo l’azzurro, quando vince, ci unisce: e non sempre. Poi c’è stata anche «una» partita. La Lazio di Sarri, il tecnico del nono e ultimo «scudo», che il sottoscritto non avrebbe esonerato. Le mancava Immobile, il capo-cannoniere. La Juventus era stremata, svuotata dalle burrasche di coppa. Agli invitati, lo chef Max ha offerto il solito buffet. Tutti dietro ad attendere, educati, e qua e là fuochi d’artificio in giardino. Come i gol: Vlahovic di testa, subito, su cross di Morata; e poi Morata, di destro, al culmine di un contropiede Dybala-Cuadrado. Nel mentre, Chiellini continuava a girare e a firmare autografi, la barbetta patibolare, il naso grifagno (dallo zaino del grande Camin).

Alla ripresa, la Lazio segnava subito (carambola Patric-Alex Sandro), il popolo continuava a commuoversi. Allegri raschiava il fondo della under, con Palumbo, con Aké (Miretti c’era dall’inizio). Il 2-2 di Milinkovic-Savic piombava, ultimo e trafelato ospite, al 96’, dopo che Ayroldi aveva valutato, alla Orsato, un contatto Zaccagni-Cuadrado. Finiva l’amichevole, non la notte, mai troppo piccola per momenti così: lo Stadium che fischia Agnelli, perché il cuore non è una plusvalenza; Chiellini che «placca» tutti, come ai bei tempi; Dybala che piange, la storia che passa e saluta.

Match-point

Roberto Beccantini15 maggio 2022

Non me ne voglia Pioli, l’ex carro attrezzi diventato proprietario dell’officina dei sogni, se parto dal gol di Theo Hernandez. Da area ad area. Come Weah contro il Verona. Come Berti in Baviera. Il Milan aveva già sbloccato il risultato con Leao, servito da un lancio «abbastanza» lungo (uhm, i fusignanisti) di Messias. Sono i gol, quelli «alla» Theo, che accendono i bambini e, magari, mandano in bestia i maniaci delle lavagne, gli spasimanti degli schemi. Perché li spaccano, perché tolgono qualcosa (cosa, poi?) ai precettori.

Era una partita, Milan-Atalanta, molto bloccata, soffocata dall’effetto fornace, ostaggio di una tensione palpabile. Della Dea è rimasta l’i-dea, non i califfi che ne decorarono la saga (il Papu, Ilicic, Gosens, il miglior Zapata). Ha tirato poco, recrimina per un contrasto fra Kalulu e Pessina a monte dell’1-0 (Orsato non è Valeri, a ognuno il suo), ha patito gli episodi, non la trama. Il Milan ha un gioco leggero che, d’improvviso, s’impenna: fra le sgommate di Theo e le volate di Leao (11 gol), una delle rare sinistre al potere (anche se, spesso, sarebbe più corretto parlare di centro-sinistra, visti i sentieri e le coalizioni).

Ancora una volta, è stata la ripresa a lanciare il Diavolo: era già successo all’Olimpico con la Lazio, a San Siro con la Fiorentina e al Bentegodi. Inflessibile la coppia Tomori-Kalulu, un po’ giù Tonali, artefice degli ultimi sorpassi. Capita. La forza del Milan è il coraggio, la rosa: non la più forte, ma forte per visione e per solidarietà. Dietro, c’è il lavoro del mister, di Maldini, di Massara, di Gazidis: senza dimenticare Boban, che, ai tempi della cotta per Rangnick, mollò il fondo perché voleva mollare Pioli, sul cui carro sono saliti tanti, troppi. Ah, questi italiani.

L’Inter ha risposto a Cagliari in serata, di forza. Con Darmian. Di testa,
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Zero titoli, era nell’area

Roberto Beccantini12 maggio 2022

Zero titoli, dunque. L’ultima volta fu nel 2011: allenatore, Delneri. Dopo la Supercoppa, l’Inter strappa alla Juventus anche la Coppa Italia, uno dei rari pronostici che ho azzeccato. E così Allegri dovrà interrogarsi, al di là della fuga di Cristiano, degli infortuni e di Valeri: e qualcuno, magari, su di lui. E sui suoi nervi. Per battere questa Juventus non serve più, come in passato, la partita della vita. Basta una partita normale, soprattutto se sei l’Inter e sai di essere più forte, più completa.

Di gran livello, la cornice dell’Olimpico. Non altrettanto l’ordalia, almeno nel primo tempo. Nel secondo, sì: fra tuoni, fulmini e ribaltoni. Il gol-lampo di Barella, gran tiro fra zolle deserte, costringeva la Juventus a inventarsi una trama che il suo tecnico non ha nelle corde. Ci ha provato. Handanovic bravissimo su Vlahovic e bravo su De Ligt. Dybala, fra color che son sospesi, a fil dal montante.

Inzaghi e Allegri sono meno distanti di quanto non sembri. Italianisti di vecchio e nuovo conio. La squadra di Simone rinculava un po’ troppo: immagino i moccoli di Arrigo. Da Rabiot, Zakaria e Cuadrado filtravano rari lumi. L’Omarino sembrava il dottor Divago, un po’ qua e un po’ là. Allegri era partito con Bernardeschi (il solito fumo) e senza Morata, scuola Real, uno dei pochi che cavalcano le sfide secche senza esserne disarcionati. Entrato al 40’, per Danilo, dava la scossa. Ah, questi strateghi.

Madama, alla ripresa, continuava ventre a terra. Ma aveva il «torto», perdonatemi il paradosso, di ribaltarla troppo in fretta: al 50’ con Alex Sandro, proprio colui che a San Siro, in Supercoppa, aveva spalancato il Mar Rosso al Mosè di turno
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