Tutto il resto, rissa

Roberto Beccantini14 aprile 2022

E’ stata prima noia e poi rissa, mai gioia, se non, alla fine, per chi è passato. Champions mon amour. L’Atletico del Cholo è questo, il City del Pep «anche» questo: se proprio vogliamo fare quelli che. L’1-0 dell’andata, firmato da De Bruyne, ha costretto il Cholismo a inventarsi una partita troppo lontana dalla sua filosofia: che, sia chiaro, non è reato. Per un tempo l’Atletico ha fiutato l’aria, e non l’area, sciame di zanzare in groppa a un elefante che, di suo, era uscito abbastanza stremato dall’ordalia di domenica con il Liverpool.

E comunque: palo di Gundogan, monitoraggio della situazione, De Bruyne in stand by, Foden e Mahrez attivi, sì, ma non al punto da stappare champagne. I materassai, loro, il pugnale fra i denti, Felipe qualcosa di più, Savic implacabile, Joao Felix a caccia di qualunque cosa che assomigliasse a un bossolo, a una munizione. Il migliore, Kondogbia. Il peggiore, Griezmann.

Ci ha provato nella ripresa, l’Atletico, anche perché il Wanda bolliva e il tempo stringeva. Ha creato mischie, tentazioni, ha ricavato benzina dai cambi (da Carrasco, da Correa, da Cunha, da tutti tranne che da De Paul), ha prodotto due-tre occasioni, l’ultima delle quali, con Correa, addirittura al 112’. Ederson era lì. Poco prima era stato espulso, finalmente e giustamente, Felipe, per l’ennesima imboscata a Foden. Ne era nata una zuffa da calcio antico, molti contro molti, Simeone ora pompiere ora piromane, le classiche code da far west per le quali, sotto sotto, tifiamo e che, sopra sopra, censuriamo.

Insomma: bottiglioni di camomilla e, d’improvviso, scariche da sedia elettrica. Il calcio, signori. Che è poi come noi. Favorito era il City. Lo 0-0 lo traghetta dall’altra parte di Madrid, verso il Bernabeu del Real. Non proprio alla sua maniera, ma con gli attributi: che non sempre, per chi può, sono aggettivi.

Esausto

Roberto Beccantini13 aprile 2022

Persino Rocco Siffredi, alla fine, si sarebbe accasciato. Mamma mia che rumba al Bernabeu. Presto, due pillole di Cagliari-Juventus, ho il cuore che batte ancora. Dunque: Real-Chelsea da 0-3 a 2-3 dopo i supplementari. Real in semifinale, detentori fuori. Ma fra gli applausi, ammesso che lo consideriate un motto di cavalleria e non già uno slogan frusto.

A Stamford Bridge aveva deciso Benzema, 1-3. Questa volta, la trama è sfuggita al destino stesso, che rimane il regista più sensibile, anche se non sempre il più credibile. Tuchel aveva azzeccato i cambi all’inizio: Marcos Alonso (al quale una gelida manina ha annullato un gol sullo 0-2), Kovacic, Loftus-Cheek, Werner. Ancelotti, lui, ha azzeccato i cambi «durante»: soprattutto Camavinga e Rodrygo.

I gol, tanto per non dimenticare: Mason Mount, su assist di Werner, Rudiger di capoccia, Werner di finta e contro-finta, poi Rodrygo e, oltre il 90° e al di là del miedo escenico, Benzema, di testa, sull’unico lampo di Vinicius.

Torniamo alla rete di Rodrygo. L’esterno destro di (san) Luka Modric, a 36 anni, vale da solo, come si diceva nel Novecento, il prezzo del biglietto. Uno dei passaggi più belli che abbia mai visto. Una carezza-schiaffo. Dalla traiettoria spaziale. Modric, fin lì Giona inghiottito dalla balena.

Come in Manchester City-Liverpool ci sono stati anche degli errori, che discorsi, di Mendy, di Rudiger (un partitone, tranne la scivolata sul 2-3) e magari dello stesso Tuchel (mai togliere il migliore in campo, Werner), ma siamo al livello di cavilli così sofisticati, così pusillanimi, che quasi mi vergogno, che quasi (giustamente) mi arrestano.

Il Chelsea ci ha provato fino alla fine, e avrebbe pure meritato di farcela.
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Ma sì

Roberto Beccantini9 aprile 2022

E’ un anno così, in cui il brodo fa tutto, è tutto. Sembrava, la Juventus, la «solita» Juventus. Con la testa ancora all’Inter, e all’ira funesta per certi episodi, subito bucata da uno spillo di Joao Pedro (su palla persa da Dybala e tocco di Marin). Gran gol. Era l’11’. La scossa l’ha spinta all’attacco. Non è facile aprire un catenaccio: chiedere, con tatto, al Pep anti-Cholo.

Il Cagliari si è chiuso a chiave. Mazzarri l’ha messa sul fisico, Allegri su quello che poteva, tra infortuni e squalifiche, su quello che sa (e sa che i suoi possono fare). Tutti avanti, a ritmo lento, a caccia di un lampo, di un pertugio. Una pioggerellina senza tuoni. Noiosa ma insistente.

Si giocava in una metà campo. Il pari di Luca Pellegrini veniva invalidato da un braccio di Rabiot. La Juventus era Cuadrado: regista occulto, impegnava Cragno, offriva a De Ligt la parabola dell’1-1, proprio agli sgoccioli del primo tempo. Vlahovic invocava munizioni, o almeno lo straccio di un cross, Lovato lo mordeva: letteralmente. L’Omarino rimediava a un incipit terrificante con piccoli numeri, mentre Zakaria e Arthur governavano la selva oscura del centrocampo.

Dybala: lo vorrei più avanti, che discorsi, ma poi chi, se non lui, può fornire a Vlahovic quell’assist lì per il 2-1? Era pronto Kean, Allegri stava per toglierlo. Aspettando, gli è andata bene. Molto british, il duello fra Bellanova e Pellegrini. Madama ha lasciato a Mazzarri e al suo tardivo avanti Savoia (Gaston Pereira, Keita Baldé) l’ultimo quarto d’ora. Se Vlahovic, nell’anticipare Altare, era stato «un attimino» fortunato, nessun dubbio che Madama abbia meritato la vittoria.

L’Inter, per concludere. Il colpo «gobbo» dello Stadium l’ha sbloccata. Gran primo tempo con il Verona (Barella, Dzeko), poi pilota automatico, con turbolenze serie ma gestibili.