Etichetta rossa

Roberto Beccantini8 marzo 2022

Se ti siedi ad Anfield, ordinare è difficile anche quando pensi di averlo fatto (gran gol di Lau-Toro). Dura un attimo, la gloria. Lo scrisse Zoff. L’espulsione di Sanchez, già a rischio rosso su Thiago Alcantara, ha ridato al Liverpool quella serenità che i tre legni (traversa di Matip e palo di Salah sullo 0-0, palo del Faraone sullo 0-1) e le grandi «parate» di Skriniar su Van Dijk e di Vidal su Luis Diaz gli avevano tolto.

Decide, così, il 2-0 di San Siro. I Reds sono più forti, ça va sans dire, ma fra andata e ritorno non è che l’abbiano urlato. Anche per le rotazioni di Klopp. Primo tempo liscio; secondo, gasato. Mancava Barella, squalificato: Vidal (c’era una volta) ha salvato un gol, sì, ma prodotto poco. Partita strana, di Alisson e Handanovic non ricordo clamorose piroette. Inzaghi aveva rinunciato a Dzeko. Artiglieria leggera, con Skriniar a chiudere la porta e Brozovic ad aprire le finestre. Martinez grigio, rete a parte. Sanchez, fin troppo tarantolato. Calhanoglu a tocchi alterni. Perisic più di Dumfries. E, dietro, vi raccomando il duello tra Bastoni e Salah. Vincere ad Anfield, comunque, non è mai banale. Qualcosa lascia sempre: a patto di non scivolare sulle lacrime delle moviole.

Il Liverpool? Già al Meazza, più sornione che padrone: e là una traversa l’aveva colpita Calha. Ad Anfield, stesso atteggiamento. Su tutti, Alexander-Arnold: i secchioni diranno che in difesa, bé, insomma. Al diavolo. Pura polvere da sparo. Poi Van Dijk e Salah. Non Mané, bassa periferia; e nemmeno Diogo Jota (cos’ha Firmino?). Per tacere di Jones. All’Inter è mancato il guizzo sotto porta. Al Liverpool, l’effetto dominio che spesso sprigiona. Il calcio, metà arte e metà riffa, si è inchinato al pronostico. A modo suo, con piccole concessioni agli episodi, ma in termini, come direbbe lo zio Bergomi, «onesti».

Quarti di sofferenza

Roberto Beccantini6 marzo 2022

Era il 28’, quando ho mollato City e United al loro destino (mai che una volta me lo presentino, ci terrei molto) per dedicarmi a Juventus-Spezia. Troppo alti, i ritmi di Manchester; e troppo raffinate, le trame. Avevo i polpastrelli esausti. Avevo bisogno di una tisana. Intendiamoci: Madama ha l’infermeria zeppa e Firenze nelle gambe. Le idi di marzo, inoltre, avanzano, minacciose. Allegri deve far giocare sempre gli stessi e lo Spezia, occhio, aveva vinto al Maradona e con il Milan a San Siro. Thiago Motta, fra parentesi, aveva allestito una formazione spregiudicata. Fra parentesi.

E allora? Palla ad Arthur e Locatelli, con Cuadrado dirimente e convergente, Vlahovic a caccia di corpi ai quali appendersi, Morata sulla sinistra, come il Marione di una volta. Le cadenze, quelle, erano lesse. Ci sarebbero voluti qualche dribbling, qualche assist (vero), un briciolo di fantasia. La Juventus ci ha provato: due palle-gol (la prima, murata da Nikolaou su Locatelli; la seconda, sventata da Provedel su Arthur, smarcato da Cuadrado). E poi la rete, al 33’. Lancio un po’ così del portiere, da Rugani a Vlahovic, da Locatelli a Morata: et voilà.

I prestazionisti erano in estasi: 62% a 38% di possesso, 5 a 0 i tiri. I risultatisti, non proprio. La storia di questa stagione è una stagione strana, di tonfi e impennate, di ricerca del tempo perduto: e, con il tempo, di un gioco, di un’idea. Lo Spezia, pure esso incerottato, ha cambiato passo nella ripresa. L’ha dominata, letteralmente. Ha costretto Szczesny, su Gyasi e Agudelo, a un paio di parate salvifiche. Vlahovic era perso, Rabiot rischiava di far perdere, De Ligt e c. si rifugiavano sotto la gonna di Cuadrado e Morata. La Bernarda festeggiava il ritorno con un giallo. Alla fine, la strisciolina: 9 vittorie e 5 pari. Quarti di nobiltà ieri, di necessità oggi. Soffrendo, sbuffando.

OttantaDino

Roberto Beccantini28 febbraio 2022

Ottant’anni, oggi. Dino Zoff, come «vola» il tempo. Portiere per vocazione operaia, friulano e pasoliniano, la solitudine essenza ed esigenza. Tra i pali come in fabbrica. Per produrre, doveva impedire che producessero gli avversari. Di scuola britannica, studioso di Banks, poco teatro e ancor meno cinema, zero alibi, la colonna sonora del silenzio e il senso della misura: «Dura solo un attimo, la gloria». Proprio così. Avrebbe potuto scriverci un libro: e difatti l’ha scritto.

Udinese, Mantova, Napoli, Juventus. E la Nazionale. Poi allenatore: Olimpica, Juventus, Lazio, Italia, ancora Lazio, Fiorentina. E persino presidente (della Lazio di Cragnotti). E’ stato l’unico italiano a conquistare Europa e Mondo. Finì su «Newsweek» e in un francobollo di Guttuso. Ha debellato un virus strano che l’aveva quasi incatenato. Compie gli anni durante una guerra, non importa se (per ora) lontana, lui che dentro a un’altra era nato, il 28 febbraio 1942.

Per me, uno dei più grandi. Ha giocato nell’epoca in cui, per i portieri, i piedi erano necessari ma non ancora obbligatori. Ha vinto quasi tutto, e da tecnico, con Madama, una Coppa Uefa e una Coppa Italia strappata – udite, udite – al Milan di Sacchi. Oggi, i portieri sono tralicci di muscoli e tritolo. Conobbe la moglie, Anna, a Mantova, ha un figlio, due nipotini, vive a Roma. Il tiro da lontano di Haan, in Argentina, e la paratona su Oscar, al Sarrià, sono i confini di una carriera scampata, addirittura, alle pallottole del web. Non è stato tutto, è stato molto. Gli basta. L’11 luglio saranno 40 anni dal Mundial spagnolo, dal bacio a Bearzot, che tanto gli manca, dall’urlo di cui Tardelli è rimasto prigioniero.

Conta-Dino, lo chiamava il poetico Camin. Era un altro secolo. Felice di esserci stato. Auguri, Dino.

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