Com’è triste Milano

Roberto Beccantini7 dicembre 2021

Inter seconda, Milan fuori da tutto: è andata così. Precedenza, noblesse oblige, al Bernabeu. Carletto Allegri (pardon, Ancelotti) ha lasciato che la partita la facesse Inzaghi. E i suoi l’hanno fatta, soprattutto all’inizio. E’ stato il «tridente» a tradire: Lau-Toro, Dzeko e Calhanoglu. In Europa è diverso, quante volte devo ripeterlo? Giocavano di contropiede, i blancos. Il gol, però, lo hanno realizzato ad avversari schierati: perché il calcio non è (solo) lavagna. Consegno il sinistro di Kroos agli esteti. E pure il palleggio di Modric, Casemiro, persino di Jovic; e del tedesco, naturalmente. Il mio regno per i loro alluci. O almeno per uno.

Un palo di Rodrygo, qualche mischia dalle parti di Courtois, e l’idea di un calcio felpato, equilibrato. In avvio di ripresa, Barella ha sprecato il pari e poi, dal momento che, Var o non Var, il Bernabeu è sempre il Bernabeu, una «reazion picciola al cammino», su Militao, colonna della difesa, gli è costato il rosso. Benedetto ragazzo. Era il 64’. Era proprio il caso di togliere Brozovic? Ciò premesso, i cambi hanno dato più a Carletto che a Simone. Per esempio, Asensio e il suo sinistro a giro. Il Real ha vinto le ultime quattro sfide con l’Inter, di corto o lungo muso: rimane un divario di qualità che qua e là scompare, qua e là riappare. Ma alla fine resta. E occhio: se non c’era De Vrij, non c’era neppure Benzema, che sta ad Ancelotti come Lukaku stava a Conte.

Si compie, a San Siro, la mesta ritirata del Milan. Non basta il gol di Tomori. Maignan e lo stesso Tomori propiziano l’aggancio di Salah e il sorpasso di Origi. A Pioli mancava mezza squadra, Klopp aveva liberato un sacco di riserve. Sei vittorie su sei, il Liverpool. E, nella notte, una velocità di crociera e una fame (delle seconde linee) che hanno spinto Ibra e Kessié alla resa
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Dietro l’angolo

Roberto Beccantini5 dicembre 2021

Da Çalhanoglu a Cuadrado, son tornati di moda i gol su calcio d’angolo. Direttamente. Si chiamano «gol olimpici» dal 2 ottobre 1924: da quando, cioè, l’argentino Cesareo Onzari beffò il portiere dell’Uruguay, fresco dell’oro ai Giochi di Parigi. Da qui, appunto, olimpico. Il turco, a Roma, sul primo palo: con Zaniolo e Cristante a confondere Rui Patricio. Il colombiano, sul palo lontano, con una parabola liftata, più elegante, a scavalcare Sirigu. In questi casi, si accendono i dibatti: poteva, il portiere, fare di più? Voleva, il tiratore, metterla proprio lì? Cuadrado ha confessato nella notte: volevo crossare. Grazie.

Il resto, adesso. Sei punti fra Salernitana e Genoa, l’ultima e la terzultima: 2-0, 2-0. Avversari sfigurati dalle assenze: piano, dunque, con le trombe. Il campionato di Sheva comincia venerdì, con il derby. Non poteva, la partita, che consegnarsi alla tirannia geografica di Madama. Allegri ha confermato il 4-2-3-1, Kulusevski, Dybala, Morata, Bernarderschi, costui più interno che ala. Continua a piacermi Pellegrini: e forse per questo mi è stato tolto (scherzo, era ammonito).

Non c’era trama, se non che Locatelli e Bentancur sferragliavano, laboriosi, verso l’area promessa. Non è facile demolire i catenacci. Servono i dribbling (Dybala, Cuadrado), la velocità di pensiero o di tocco. La mira. Ecco: soprattutto la mira: e qui cominciavano i guai, a parte gli scarabocchi tecnici, sempre troppi in rapporto alle ambizioni.

Sino al raddoppio di Dybala, sinistro croccante su invito della Bernarda, Sirigu aveva sventato almeno quattro palle-gol: una a De Ligt, due a Morata, una alla Joya. E così il vecchio Grifo è stato in partita sino all’82’. I nervi di Morata, già ammonito, hanno spinto l’«Halma mater» a toglierlo. C’è stato uno scazzo, figlio, spero, degli errori sotto porta.

Dea, giù la maschera

Roberto Beccantini4 dicembre 2021

Mi libero subito del risultato, 2-3, e del tabellino – Malinovskyi di violino, Zielinski di forza, Mertens di bisturi, Demiral di sasso, Freuler di biliardo – perché c’è un sacco da raccontare. Gran partita, al Maradona. Al Napoli ne mancavano cinque, tutti titolarissimi, più Spalletti. Ecco perché sconfitta e terzo posto non devono abbatterlo.

Per l’Atalanta era un esame. Si è fatta furba, senza rinunciare alla bellezza scultorea che l’aveva resa unica, ha allargato la gamma del repertorio persino al catenaccio: come allo Stadium, nella ripresa; come stavolta, nel finale. Attorno a un titanico Zapata, era tutto un ribollir di tini e di Toloi. Han menato, han pressato. Il Napoli ha dato il massimo, così conciato, ed era rientrato in partita con l’agilità dei suoi stukas: Mertens, Lozano, Malcuit (sì, Malcuit), Lobotka.

L’ordalia è stata battuta da ritmi fanatici, la metà campo sembrava un confine senza barriere, tale era il traffico che ne congestionava il passo: per tacere del gol di Mertens, scattato addirittura dalla sua, con Demiral sorpreso. Una topica tattica smorzata un po’ dai cambi e un po’ dal furore. Poteva uscire di tutto, da una simile roulette, il pareggio o la vittoria del Napoli. Ogni duellante ha avuto le sue occasioni, sporche e pulite, Zapata ha colto addirittura un palo. Sono stati i dettagli, al termine, a condurci dal vincitore.

Il Napoli non deve cedere alle sirene del fatalismo, l’Atalanta non può più nascondersi: Milan 38, Inter 37, Napoli 36, Atalanta 34. Penso che le staffette, complessivamente, abbiano dato una mano più alle esigenze del Gasp che non al palleggio degli avversari. Restano le tracce, calde, di una sfida rusticana, con la squadra in difficoltà, sempre o quasi, capace di ribellarsi al destino. La Dea, soprattutto.