Fra guelfi e juventini

Roberto Beccantini28 gennaio 2022

Chiedo scusa per il ritardo, ma ho atteso la firma: chi poteva immaginare che Dusan Vlahovic, 22 anni proprio oggi, 28 gennaio, e progetto di grande cannoniere, avrebbe scelto una squadra «senza allenatore»? Lascio agli esperti della finanza l’esegesi dell’improvvisa, e clamorosa, sterzata. Ero rimasto alla Juventus in bolletta, alle plusvalenze. Poi, d’improvviso: Arrivabene, tesoretti anticipati, sostenibilità, visioni lunghe.

Mi tengo la parte tecnica. Vlahovic è stato avvicinato a Batistuta, a Ibra, a Trezeguet. I paragoni, nello sport, sono come le luci al neon di certi localini: ti seducono, entri, ma non sempre trovi quello che avresti desiderato. O ti avevano promesso. Sul «Guerino» dell’aprile 2021 scrissi: «Serve [alla Juventus] un attaccante da venti gol. Dusan Vlahovic li ha in canna». Fino ad agosto, ci pensava Cristiano: da febbraio, dovrà pensarci lui. Il serbo ha fisico, ha garra, ha testa. Ma è un centravanti e, in quanto tale, ha bisogno di munizioni. Le ha trovate, cospicue, nell’arsenale, e nelle lezioni, di Italiano. Gli obiettivi spiccioli coinvolgono i quarti di Champions, da contendere al Villarreal, e il quarto posto in campionato. Capello li dà già per acquisti. Non lo ricordo, ai tempi d’oro, così smargiasso. «Halma».

Nessun dubbio che mancasse un tipo del genere. Con Vlahovic, Madama dovrebbe tornare a fare un po’ più di paura, a patto che il centrocampo e la coralità della manovra ne supportino lo stile, le doti, l’istinto. Ecco allora che il problema si sposta: molto dipenderà dal salto di livello, che non tutti i candidati reggono, e dal contributo di un gioco meno frenato, meno tirchio. Dunque, dal tecnico. Ergo, da Allegri. Spalle al muso (corto). Non c’entra il circo: si riparte dagli «zero tiri» di San Siro. Per far crescere la rosa,
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Noia a San Siro

Roberto Beccantini23 gennaio 2022

Vita bassa, da 0-0 e tutti a nanna dopo Carosello, lontano dalla movida di Inter, Napoli, Atalanta (al completo) e del Diavolo d’andata. Le sfide tra Milan e Juventus strizzano spesso l’occhio alla storia, ma questa volta ci si si deve accontentare delle briciole. Mettiamoci pure l’erba di San Siro – un’erbaccia, dicono – e i cerotti con cui Pioli e Allegri avevano medicato gli assetti. Anche De Ligt; e, durante, persino Ibra. Però.

Il Milan pensa a tutto e a tutti, ormai, tranne che allo scudetto. A Madama, visto il pari della Dea, non è parso vero di poter «fingere». Per attaccare, qua e là ha attaccato. Ma tiri in porta, zero. Leao e Theo, se non altro, hanno stuzzicato Szczesny. E’ stato un lungo, barboso armistizio di 95’. Citerò solo una volta Chelsea-Tottenham: promesso.

Le difese – Romagnoli e Kalulu da una parte, Chiellini e Rugani dall’altra – spadroneggiavano, surrogate da un gran ribollir di stinchi. Gira e rigira, se si escludono le bollicine del «primo» Leao, punte e puntine sono finite alla periferia della notte: Brahim Diaz e Messias, lo stesso Giroud, Rebic per gli spiccioli concessigli; Morata, perennemente spalle alla porta, «occhi di bragia» Dybala gironzolante a caccia di chissà cosa o di chissà chi. Tocchi brevi, stop avventurosi, e quella lontananza dall’area che non sa mai come liquidare, se per scelta tecnica o per luna storta.

I migliori? Tonali, anche se calato, e Bentancur, il Calabria dell’avvio e il Rugani con l’elmetto, due chiusure del quale mi hanno commosso, ebbene sì. Il giallo immediato ha ridotto Locatelli, atteso al varco, a una caricatura di Amleto, essere o non essere. Le edicole si aspettavano tuoni, lampi, almeno piovaschi. Niente: solo nuvole. Parafrasando il Victor Hugo di Cocteau: «Milan e Juventus erano dei pazzi che credevano di essere Milan e Juventus».

Da Alex Sandro a Pellegrini

Roberto Beccantini15 gennaio 2022

Tutto era cominciato proprio con l’Udinese, in Friuli. Un quarto d’ora da favola, i gol di Dybala e Cuadrado, gli scempi di Szczesny, i due pali, l’alluce tecnologico che tolse l’ultimo gol all’ultimo Cristiano. Da quel dì, via il Marziano e – salvo rari sprazzi: in Champions, soprattutto – un attorcigliarsi lento e mesto su sé stessa, la Juventus. Fino all’Udinese, again. Allegri è il candidato della base alla «presidenza» delle responsabilità. Adani e Cassano lo voterebbero per alzata di mano già al primo scrutinio. Per il resto, e con i resti, si vive alla giornata.

Mentre l’Inter si è juventinizzata (Marotta, Conte, forse Dybala) la Juventus si è dejuventinizzata. Otto cambi, rispetto a San Siro. E la solita solfa. L’Udinese dietro, Kean un po’ qua e un po’ là, Arthur a ricamare, Bentancur a recuperare, Kulu a caccia del dribbling perduto. Il gol lo segna Dybala, su azione Arthur-Kean-Nuytinck. Non esulta, l’Omarino. Guarda, torvo, la tribuna. Allegri l’ha fatto capitano. Gradi, non gradini. «Arrivamaluccio», in compenso, parla troppo: contatto, di sicuro; contratto, boh. Dopo la Supercoppa, si gridò: perché Alex Sandro e non Pellegrini. Stavolta, dopo Arslan e soci, perché Pellegrini e non De Sciglio?

Piano piano, la squadra di Cioffi, bersagliata dal Covid, ha preso campo con il suo rambismo da provincia, risorsa e non certo limite. La Juventus ha cominciato a rinculare, molti errori nei tocchi. Mollezza, lentezza. Paura di aver coraggio.

Allegri è ricorso a energie fresche. Bernardeschi, per esempio: svagato e pure a rischio penalty; Locatelli, meglio. E, per fortuna, De Sciglio. Suo il cross, da un’aperturona di Dybala, per la testa di McKennie: lavagna, lavagna delle mie brame. Sei vittorie e due pareggi nelle ultime otto. Rare occasioni; palla sui piedi, spesso. Come una volta: ma senza i campioni di una volta. E l’Omarino, lontano dall’area (solo dall’area?): troppo, ma serviva, serve, un filo di luce.