Gerd, area condizionata

Roberto Beccantini15 agosto 2021

Si era perso, da anni, nei fumi della demenza. Gerd Muller, lui che aveva scelto una fetta di terra, l’area di rigore, per diventare «il» centravanti. Quello che, ai tempi in cui il posto era fisso anche nell’idea, aspettava il silenzio dell’attimo per trasformarlo in tuono. Una vita nel Bayern, grassoccio, sgraziato, sempre lì, in un posto che gli era casa e ufficio, funzione e missione: 730 gol in 788 partite, 68 gol in 62 con la Germania, pallone d’oro, campione del Mondo, campione d’Europa, 3 Coppe dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Intercontinentale, 4 scudetti, 4 Coppe tedesche, capocannoniere ovunque e comunque.

E, naturalmente, Italiagermaniaquattroatre, 17 giugno 1970, allo stadio Azteca di Città del Messico, un gol rotolante a metà con Poletti, e la sgrullatina che scatenò il destino, già al dessert ma, evidentemente, ancora non sazio: Rivera che, vicino al palo, non intercetta e Albertosi che, se solo potesse, lo passarebbe per le armi. Invece no, qui piovono i ricordi: piatto destro proprio di Rivera, il condannato, e tutto il mondo, fedele al proverbio, fu Paese: il nostro.

Muller è cognome non meno comune di Rossi, in questi casi si ricorre al nome, Gerd, Paolo, Valentino. Ecco: Paolo, sì, aveva qualcosa di Gerd. Se Diego Maradona è stato il calcio, loro sono stati i momenti. E qui mi soccorre l’eterno Jim Morrison: «A volte basta un attimo per scordare una vita, ma a volte non basta una vita per scordare un attimo». Finì in Florida, incapace di vincere il «dopo», che per un fuoriclasse è stagione terribile, scommessa cialtrona. Esci da una reggia di cui possedevi le chiavi ed entri in un’avventura che, se le perdi, diventa una prigione.

Invisibile agli avversari, che pure ne annusavano i ferini agguati, si è fatto invisibile a sé stesso. Gerd Muller, 75 anni, il mestiere dell’ombra.

In un mese

Roberto Beccantini11 agosto 2021

In un mese, dall’11 luglio all’11 agosto, è cambiato il mondo. Il nostro, almeno. Siamo diventati campioni d’Europa con la Nazionale di Mancini. Ci siamo scoperti nazione multietnica all’Olimpiade: gli ultimi saranno i primi. Abbiamo espresso, per la prima volta, un finalista a Wimbledon: Berrettini. Ha annunciato il ritiro Valentino, che delle moto era diventato il centauro più seducente (nomen omen). Dopo 21 anni, Lionel Messi ha lasciato Barcellona per Parigi. La fine di un’epoca. E l’inizio di chissà quale «cosa», alla Nanni Moretti.

Se n’è andato, Leo, a parametro zero. Ha 34 anni, è un pittore e non uno scultore come Cristiano, arrivò da Rosario che era un nano, l’hanno curato e cresciuto sino a farne «més que un Club»: nei trofei, nei soldi. Tanti ne ha prodotti, tanti ne ha ricevuti. E’ successo, al Barça, quello che Alessandro Bergonzoni ha raccontato in «Aprimi cielo», con la malinconica ironia che lo caratterizza: «Nel curare qualcuno, si diventa qualcuno da curare». Appunto. Un debito qua e uno là, fino all’implosione (sotto la gestione Bartomeu, soprattutto).

Tra fondi di pace e sfondi di guerra (la Superlega fallita, il Fair play finanziario svuotato dalla pandemia), comandano sceicchi e russi. Se la storia siamo noi (Mattarella), il mercato sono loro. La «tipo» del Paris Saint-Qatar mette paura. Sulla carta. Sul campo, citofonare Lille. Leo abbandona il diletto 10, indirizzo dell’amico Neymar, per trasferirsi al civico 30. Più umano di Diego, ci ha abituato alla bellezza del dribbling, a quei conati (di genio, di vomito) che ne hanno resa unica la carriera. E’ mancato, all’epilogo di domenica, il calore del popolo. E non chiedetemi se fossero, le sue, lacrime di caimano mascherato da coccodrillo o viceversa. Si è liberato di una patria che sentiva ormai come una cella. Se il «final» non è stato proprio lieto, lietissimo è stato il «durante». E allora: Messì beaucoup.

Vaccinato a tutto, ma a questo..

Roberto Beccantini6 agosto 2021

Vaccinato a tutto, sì, ma non a questo, non a «questi». Dopo l’alto di Tamberi e i 100 di Jacobs, la marcia di (famolo) Stano e della Palmisano, fuochi di Puglia, persino la 4×100. Noi, le cui squadre dal basket (con molto onore) al volley (con molto meno) erano cadute. Salvati dal quartetto del ciclismo di Ganna and friends e dalla staffetta veloce. Lorenzo Patta, sardo dell’Oristano che brucia. Lo Jacobs di cui sempre (da domenica 1° agosto), nato nel Texas e battezzato, come ha scritto Giancarlo Dotto, nelle acque del Garda. Eseosa Fostine Desalu detto Fausto, di Casalmaggiore, provincia di Cremona, e sangue di Nigeria. Filippo Tortu, lombardo di origini sarde (che, dicono, sarebbe un duecentista eccezionale). La storia sono loro, sono d’oro: 37″50 davanti a Gran Bretagna e Canada.

Un’altra giornata mitica e mistica, alzi la mano colui che, fra noi testimoni, non avrebbe voluto essere «il» testimone, quel candelotto lì, per raccontare più da vicino e più dal di dentro i passaggi dalla cronaca alla storia e dalla storia alla leggenda (per i nostri canoni, almeno), con la volata e la rimonta di Tortu nell’ultima, spasmodica, frazione. Noi, testimoni di un testimone.

Era dai Giochi del ‘48, a Londra, che la nostra 4×100 non saliva sul podio (bronzo): Michele Tito, Enrico Perucconi, Carlo Monti, papà di Fabio, Antonio Siddi. Si veniva da una guerra: e che guerra. Anche questa volta si veniva da una guerra: al Covid, più subdola e non meno mondiale dell’altra. Anzi. E così, dall’Europa del calcio alla Tokyo dell’atletica e non solo (ma dell’atletica, soprattutto) l’eresia del sogno e il sogno dell’eresia continuano.

Può essere che la pandemia, decolonizzando il sudore, abbia cementato l’orgoglio nazionale. Di sicuro, suicidandosi nei cambi, gli Usa e getta ci avevano dato una mano. Ma tutti potevano essere lì, dove c’erano, invece, i nostri ragazzi. Cittadini del mondo.