Tu chiamale, se vuoi, erezioni

Roberto Beccantini1 agosto 2021

Tu chiamale, se vuoi, erezioni. Quei dieci minuti, fra l’alto di Gianmarco Tamberi e i 100 di Lamont Marcell Jacobs, e già nei nomi c’è il segno di un’Italia mista, aperta; quei dieci minuti, dicevo, non ci chiederanno mai dove eravamo, ma se c’eravamo. Due ori nell’atletica, che regina dei Giochi lo è davvero, e non banalmente per gioco, non li si vinceva da Atene 2004: Ivano Brugnetti nei 20 chilometri di marcia, il primo giorno dell’atletica; Stefano Baldini nella maratona, l’ultimo.

L’adrenalina scorre a damigiane e chissà quando si ridurrà a goccia. Tamberi è un allegro casinista di Civitanova Marche, corregionale di Roberto Mancini. Il destino cinico e baro gli negò Rio 2016. Ha portato con sé il calco di gesso, con su scritto «Road to Tokyo 2021». Marcell è nato a El Paso, Texas, e vive con la madre a Desenzano, sul lago di Garda. Non parla inglese, è un mito mite, figlio di genitori separati e già padre, a 26 anni e mezzo, di tre figli. Come dire: un sacco di vite in una.

Gimbo di anni ne ha 29 e ha condiviso i 2,37 del podio con il qatariota Mutaz Essa Barshim. Ha aspettato Marcell, per abbracciarlo. Marcell ha corso in 9″80, nuovo record europeo: record che già in semifinale aveva portato a 9″84. Lui, bipede di volontà francescana, succede a un extraterrestre: Usain Bolt (con lo stesso tempo del suo ultimo sprint). Mai, nella storia, un italiano aveva corso la finale dei 100 metri a un’Olimpiade. Mai.

Non ho i titoli per raccontarvi, tecnicamente, i due campioni. Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio m’inchino, commosso, a una doppietta troppo grande per il mio vocabolario. Gianmarco, Marcell: ricorderò sempre domenica 1° agosto 2021, perché «saltai» il protocollo e «corsi» al pc. Per voi. Per le vostre imprese. E grazie, soprattutto, per aver dato un senso all’enfasi, all’incenso che, spesso, mi scivolano dai tasti.

Italia ombelico d’Europa

Roberto Beccantini12 luglio 2021

Nando Martellini avrebbe scandito: campioni d’Europa, campioni d’Europa. Lo è l’Italia per la seconda volta, alla grande, dopo aver rimontato e domato l’Inghilterra, dal lampo di Shaw alla zampata di Bonucci. I rigori, again. Non ha deciso Jorginho, questa volta. Donnarumma: è stato lui, l’eroe. Due parate, su Sancho e Bukayo Saka. Erano entrati, con Rashford, per dare una mano dal dischetto: 0 su 3, come non detto.

Con la Spagna, avrebbero meritato loro. A Wembley no, la nazionale era in largo credito con la trama, con lo spirito e con le occasioni, ma sì, per avare che fossero state. Chi scrive, l’aveva collocata tra i quarti e le semifinali. E’ andata al di là di tutto, e di molti. In cima, Roberto Mancini. Non aveva una rosa eccelsa, l’ha difesa, l’ha selezionata, l’ha migliorata: chapeau.

Non dei marziani, questo no, ma dei giocatori con le palle, sempre. Nei periodi in cui la superiorità di giornata avrebbe potuto spingerli a titillare il destino. E, soprattutto, nei momenti in cui bisognava pedalare e soffrire: a ruota del Belgio, dietro alla Spagna.

Una squadra nel senso vero e più «normale» della parola. Tutti per tutti, tutto per tutti. Dai Locatelli e dai Berardi di Roma al Chiesa debordante delle partite secche alla old firm, i rostri e le cicatrici di Bonucci e capitan Chiellini, passando attraverso le geometrie di Jorginho, i blitz di Barella, i ricami di Verratti. Magari ci si aspettava di più dai centravanti, Immobile o Belotti, ma il gruppo – la sua anima, la sua forza – ha coperto i limiti, ha liberato le forze.

Mai vista, in uno stadio che gronda leggenda come Wembley, l’Inghilterra così chiusa a catenaccio e l’Italia di tante vignette (e di «troppo» Lineker) così spavalda da palleggiarle in faccia. Si sono presi, gli uomini di quel fifone di Southgate, solo il primo quarto d’ora e i supplementari. Pochi spiccioli.


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Sua caduta reale

Roberto Beccantini8 luglio 2021

Inghilterra-Italia: l’Europa si decide a Wembley, domenica. Storia della nostra storia, dai leoni di Highbury al Balotelli brasiliano. Rigori contro la Spagna, rigore contro la Danimarca: nei supplementari, per giunta. Non proprio un rigorone, uno di quelli «all’italiana», Sterling fra Maehle e Jensen, il piede ingenuo del primo, un mezzo tuffo del secondo, una ginocchiatina del terzo. Erano in 60 mila, c’era persino Boris Johnson in versione ultrà, Makkelie (6, tiene famiglia) ha opposto un fiero e sdegnato sì: penalty. E chi tace acconsente (il Var). Let’s go.

Schmeichel, notte da 8, l’aveva parato a Kane, ma il destino, con gli amici, «suona» sempre due volte. Che partita è stata? Molto bella, perché equilibrata (fino, almeno, al 30’ della ripresa) e giocata a gran ritmo. La «danish dynamite» lascia fra gli applausi: anche i miei. Non avrei però sostituito Damsgaard (7), autore del primo gol all’England. Che fosse su punizione, cambia poco. Monumentali Delaney (7), Vestergaard (7,5) e pure capitan Kjaer (7), autorete a parte. Così così Maehle (5,5): il duello con Walker (7) mi ha ricordato Villeneuve (Gilles)-Arnoux a Digione.

Southgate, dunque. Ha un portiere, Pickford, dai piedi sbiruli (5,5). Terzini ch sono treni (da Walker a Shaw,7) e una coppia centrale (Maguire 7, Stones 6,5) forte in aria, meno a terra. A centrocampo Rice (6,5) e Phillips (6) sono i buttafuori, Mount (6) il talentino a caccia di scritture, Bukayo Saka (6) l’aletta che, all’oratorio, chiamavamo «tornante».

In attacco, Kane (7,5) alla Ibra: si allarga e arretra per stanare, splendida l’imbucata per il pari. In crescita continua. Sterling, lui, è ora prima punta ora globetrotter: scatto radente, ma non sempre mira decente (6,5). Il jolly è Grealish (6). A sinistra, come un sasso nello stagno. Usa e getta: inserito sull’1-1, tolto subito dopo il 2-1. Ma non sono imbattibili.