Agli ultimi Europei, nel 2016, i quarti furono: Polonia-Portogallo, Galles-Belgio, Germania-Italia, Francia-Islanda. Ne sono scomparse sei, addirittura. Tutte, tranne Belgio e Italia. E tre sono i pronostici degli ottavi che ho sbagliato: Francia (ça va sans dire), Olanda e Svezia.
L’Europa è, per tradizione, più democratica dei Mondo. L’albo d’oro racconta di dieci regine in 15 edizioni: Germania e Spagna (3); Francia (2); Unione Sovietica, Italia, Cecoslovacchia, Olanda, Danimarca, Grecia e Portogallo (1). Il Mondiale, viceversa, è molto più tirchio: Brasile (5); Germania e Italia (4); Argentina, Francia e Uruguay (2); Inghilterra e Spagna (1). Ricapitolando: otto padroni nell’arco di 21 rodei. Non credo a un motivo speciale o specifico, ma è così: la Grecia del 2004, che il catenaccio di Otto Rehhagel portò oltre l’alba del Cristianesimo, ne incarna il confine più drastico e romantico.
Dall’analisi tecnico-tattica emerge, per ora, un certo qual piattume. Viceversa, molti i gol e molte le emozioni. Non penso che ci sia contraddizione. Il divertimento è una cosa, lo spettacolo un’altra: non sempre coincidono. Stiamo consumando gli ultimi spiccioli di una stagione zavorrata dalla pandemia. Una stagione infinita sfinente. I centimetri di Arnautovic, la sciocchezza di De Ligt, l’errore di Thomas Muller, il rosso a Danielson: non sono rari gli episodi che, più degli schemi, hanno orientato i risultati.
Ancora. Dalla fase a gironi alle partite secche è come passare dal matrimonio all’adulterio: un po’ di noia ma avanti spesso, un po’ di bollori ma rischio elimination. La costruzione dal basso è stata ridotta e nessuno, dico nessuno, è sceso in piazza. I «dieci» sono stati deportati in fascia (Insigne), parcheggiati in (Grealish) e c’è chi, come Mbappé o Griezmann, ha pagato la spocchia più ancora
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