Minestrina

Roberto Beccantini22 febbraio 2021

La fortuna della Juventus malata e spolpata è stata che il Crotone di Stroppa, due punti in trasferta e ultimo della classe, gioca sempre a petto in fuori. Per mezz’ora il marziano di Flaiano non avrebbe riconosciuto il dna tecnico dei duellanti. Poi è entrato in scena l’altro marziano, colpo di testa su cross di Alex Sandro e colpo di testa, in sospensione, su cross di Ramsey che aveva raccolto una di lui saetta, smorzata dal portiere.

Non saranno certo questi gol, e gli altri sbagliati o paratigli da Cordaz, il migliore dei suoi, a raccontarci Cristiano. Figuriamoci. Venivano, i campioni, da due k.o. (Napoli, Porto), Pirlo aveva dovuto raschiare il fondo del barile, comunque ricco, e non è che ci si potesse aspettare granché. A parte le sgommate di Chiesa. E a parte, naturalmente, la fame che accompagna la fama del portoghese. Non sempre riesce a risolvere: e, per questo, lo chiamiamo problema. Spesso, però, ci riesce. Con l’Inter in coppa, con la Roma e anche questa volta. Avrebbe bisogno di lanci, di triangoli meno sgangherati. Di una velocità di crociera che gli permettesse, paradossalmente, di vivere di piccole rendite: alla sua età, poi. Diciotto gol, uno in più di Lukaku. Contro-sorpasso, almeno fra i cannonieri.

C’era Ramsey, che ha preso pure una traversa: meglio del niente al quale ci ha abituati. C’era McKennie che, in mischia, ha esploso il 3-0. Kulusevski svariava, dal verbo svariare, verbo che i cronisti tengono sempre in tasca insieme con l’aggettivo «kafkiano». Guarniscono le articolesse insipide (come questa). Nel finale è entrato persino Fagiolino, classe 2001. L’avrei schierato dall’inizio. Il saper fare è cruciale: il far sapere, di più.

Pirlo, il buon pastore, torna così al terzo posto. Sabato, a Verona, la Juventus dovrà trovare la forza di andare oltre i propri limiti: di gioco e di infermeria. Juric è un pirata. Già un anno fa rimontò e saccheggiò Madame Sarrì

Suicidio e castigo

Roberto Beccantini17 febbraio 2021

Suicidio e castigo. Subito, dopo un minuto. Dalla distruzione dal basso fra Bentancur (90% di colpa) e Szczesny (10%) è nato il gol di Taremi. Gol sul quale il Porto di Sergio Conceiçao, che in campionato ha una difesa di latta e in Champions non proprio, ha costruito una vittoria fin troppo facile ancorché non definitiva. Quando si passa dai cuscini dei gironi alle spine dell’eliminazione diretta, l’ultima Juventus si perde. Chiunque sia l’allenatore: Allegri, Sarri, Pirlo. E questo è grave.

Sono venuti fuori i problemi che ogni volta diamo per risolti, ritmo lento, centrocampo camminante, non uno smarcamento, non un lancio né un cambio di versante all’altezza delle esigenze, zero tiri. Fino al gol, bello: un cero in Chiesa. Pirlo pagava assenze non lievi, e immagino che Morata non abbia giocato dall’inizio solo per problemi fisici: è l’unico centravanti. C’era Kulusevski di punta: a Pepe brillavano gli uncini.

Cristiano, lui, attraversa un momento in cui poco gli riesce e poco si sbatte. Pigro, svagato, spesso in fuorigioco. Mi ha ricordato la barba triste di Messi. A 36 anni, avrebbe bisogno di qualche munizione in più. Sì, c’era un rigore agli sgoccioli, e il Var zitto, ma non si guardi il dito: si guardi la luna. La prestazione, non l’episodio.

Scartato il regalo, Sergio Oliveira e Uribe si sono dati a un pressing corale che ostruiva i valichi e sporcava passaggi banali, idee confuse. Hanno concesso la metà campo ai rivali, sicuri che prima o poi qualcosa sarebbe successo: e difatti succedeva, anche stavolta all’inizio del (secondo) tempo: da Manafa a Marega, alé. Era uscito Chiellini, un classico, De Ligt ha chiuso da zoppo. E’ stata una Juventus inguardabile che, come a Napoli, ha regalato metà partita, distratta nei momenti topici, baciata da un risultato che tiene vivo il ritorno. Un lusso, quasi.

L’erede e les italiens

Roberto Beccantini16 febbraio 2021

La Champions, finalmente. Monsieur Mbappé e les italiens del Paris Saint-Qatar, 4-1 al Camp Nou e più non «dimandare». D’accordo: il Barcellona è un ammasso di macerie e, dunque, piano con l’enfasi. Già a dicembre la Juventus gliene aveva rifilati tre. La notte in cui Pirlo diventò il «maestro». Kylian Mbappé ha 22 anni. Credo che sia l’erede designato al trono di Messi (34 a giugno) e Cristiano Ronaldo (36 suonati). Non solo per la tripletta: che comunque pesa. Per il senso verticale del gioco, per la velocità, per la resistenza quasi rugbistica ai placcaggi. Non bisogna essere Einstein per capire a chi assomigli di più: ai due Ronaldo, Cierre e il Fenomeno.

Se Mbappé è stato l’hombre del partido, gli italiani sono stati i suoi cavalieri, non le sue damigelle. Fin dall’inizio, Pochettino ne aveva schierati addirittura tre: Florenzi, Verratti, Kean. Tre, come la Juventus a Napoli (Chiellini, Chiesa, Bernardeschi); e uno in più dell’Inter anti-Lazio (Bastoni, Barella). Sono numeri che, se torturati, confessano quello che uno vuole: fate voi, allora.

Il mio podio: 1) Verratti, da area ad area, concreto e talentuoso (che palla, la palla a Mbappé per l’uno pari), testa alta e nervi sotto controllo. 2) Kean, centro-destra, per non pestare i piedi a Icardi, un gol di cabeza e un occhio, sempre, all’avversario; e mai a rimorchio della partita; era della Juventus, il Cristianesimo costa. 3) Florenzi, fascia destra, coperture misurate e fionda del raddoppio. Vai con l’inno di Mameli.

In vantaggio era andato il Barça, con un rigorino, molto «ino», trasformato dalla Pulce. Sembrava, Messi, un vedovo triste che, dopo aver litigato con il padre della sposa (Bartomeu, l’ex presidente), cercasse l’amore che fu attraverso la fine che sarà. Fra un Piqué smoccolante e un Pjanic buttato giù dalla panchina.


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