Ebbene sì, «clamoroso ad Anfield!»

Roberto Beccantini22 gennaio 2021

Proprio nei giorni in cui celebriamo i 70 anni del Totocalcio, di quella schedina che ci imponeva miracoli (di competenza, di fortuna, di fiuto) per realizzarne altri, innalzando un numero, il «tredici», a simbolo dei segni (1, X, 2) e dei sogni, dalla pancia deserta di Anfield arriva un risultato che avrebbe di sicuro impennato il montepremi: Liverpool zero Burnley uno. Il Liverpool, campione in carica. Il Burnley, inquilino della bassa classifica.

Il gentile Alex Drastico mi ha preceduto con un «Clamoroso ad Anfield» che si riallaccia sempre a quella fetta, preziosa e feconda, del Novecento, a una trasmissione radiofonica che diventò una specie di crocevia esistenziale, «Tutto il calcio minuto per minuto». Voci che la morte ha allontanato, ma non spento.

Non perdeva in casa da 68 partite, il Liverpool. Era falcidiato da infortuni e contagi. Stop. In alto i calici per i gloriosi pirati che ne hanno violato il Tempio. E’ proprio il modo che mi ha spinto a buttar giù, quasi a braccio, queste poche righe. Un catenaccione che mi ha riportato alle partitelle dell’oratorio, alla lettura febbrile dei giornali freschi di inchiostro, alle ombre che la prime dirette tv portavano in salotto. Alla volontà, da parte del più debole, di salire al livello del più forte; o di farlo scendere al proprio.

I Reds – che, altro allarme, non segnano da quattro gare – attaccavano, attaccavano, attaccavano. E loro, quelli del Burnley, orgogliosamente sempre e tutti lì, a difesa di un Alamo che i «messicani» di Klopp non riusciranno mai a espugnare. Poi, in una delle rare sortite, ecco l’uscita di Alisson su Ashley Barnes, il rigore e la «meta» impeccabile dello stesso Barnes. Mancava una manciata di minuti all’epilogo. Subito, the Clarets sono tornati a rintanarsi dentro casa e hanno nascosto le chiavi. Per non far entrare nessuno che non fosse la la storia. Complimenti!

Con merito, al di là del rigore

Roberto Beccantini20 gennaio 2021

La Juventus doveva ricominciare; il Napoli, continuare. Ha vinto, con merito, la Juventus perché, a volte, per andare avanti bisogna tornare indietro: al tutti per tutti, all’occhio di tigre, a quelle armi, mentali e fisiche, che, domenica sera con l’Inter, un po’ aveva nascosto e un po’ le avevano sottratto. E’ la nona Supercoppa, il primo trofeo di Andrea Pirlo.

Gli episodi, certo. Il miracolo di Szczesny su Lozano nel primo tempo, il rigore sbagliato da Insigne, l’altro miracolo del polacco agli sgoccioli. Per carità. Eppure Juventus due Napoli zero. Cristiano in mischia, quando la partita sembrava Laocoonte ingessato dai serpenti; Morata in contropiede, quando puoi prendere alla gola chi ha l’acqua alla gola.

Che finale è stata? Lenta, grigia, accesa dai falò degli attimi, con il torello di Madama a segnare la rotta, con il Napoli timido, forse troppo, aggrappato all’attesa. Sono mancati i tenori: Insigne (ben oltre il penalty), Zielinski, Lozano, Chiesa, Kulusevski, a tratti persino il marziano. Non mi aspettavo il ritorno di Cuadrado. E’ stato cruciale. Lì, sulla fascia destra, in combutta con McKennie, a frenare Insigne o chi per lui. Solo Szczesny gli ha tolto l’onore del podio più alto.

Ci sono stati pochi tiri, a conferma del predominio dei pacchetti difensivi (Bonucci-Chiellini da una parte, Manolas-Koulibaly dall’altra). A centrocampo, Pirlo ha proposto un trio – McKennie, Arthur, Bentancur – che ha sequestrato il cuore del ring. Arthur, già: il brasiliano imbuca di qua e imbuca di là, avrebbe bisogno di «cartoline» che gli dettano il lancio, merce rara. Bernardeschi al posto di Chiesa sembrava il classico cerotto ad alto rischio. Invece no: e non solo per il gol sfiorato in avvio di ripresa.

Ha chiuso, Gattuso, con Mertens, Lozano, Insigne e Llorente.
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Una lezione, non la prima

Roberto Beccantini17 gennaio 2021

Per capire la lezione dell’Inter, bastava aver capito la lezione del Sassuolo (in dieci). Solo che molti ignorano le stelle e guardano il dito (che le indica): è più comodo. Ha chiuso, la Juventus, con due tiri: uno di Rabiot, all’inizio (bravo Handanovic); uno di Chiesa, alla fine (bravissimo Handa). In mezzo, solo Inter. Non aveva ancora segnato in campionato, Vidal: eccolo. Di cresta, su cross di Barella. Che a destra, con Hakimi, ha fatto terra bruciata.

Conte ha praticato il suo calcio, un calcio di morsi, di trappole, di folate. Cosa avesse in mente Pirlo, non lo so. Non l’ha capito nessuno: nemmeno chi avrebbe dovuto. Con il Milan ci furono almeno le fiammate di Chiesa. Questa volta, calma piatta. Sembrava quasi che, per aver schierato Chiellini e Frabotta, un antico cardinale e un giovane seminarista, la squadra avesse paura di sporgersi: così facendo, avanzava al passo, ritmo che i dirimpettai spezzavano in scioltezza per armare contropiedi micidiali, molti dei quali sciupati da Lau-Toro.

Vidal si mangiava Rabiot (a destra), Cristiano e Morata, fra i peggiori, non riuscivano a trovare né posizione né munizioni, anche perché Ramsey era un fiammifero bagnato e Bentancur pascolava nei paraggi di Bonucci: palla indietro tipo rugby, sempre. Con Brozovic libero e signore là nella terra di mezzo, dove il pressing di Madama era una bava di cipria.

L’Inter ha lasciato il possesso sterile ad avversari che non graffiavano e manco mordevano, confusi nel loro labirinto, apallici e grevi. Brozovic smistava il traffico, Bastoni poteva serenamente avanzare, il duello Chiellini-Lukaku era roba da massimi, se non proprio il massimo. Immagino che De Vrij e Skriniar non si aspettassero una notte così tenera.

Di solito ha cali di tensione, la Juventus. In questo caso
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