Ai posteri, ai posteri…

Roberto Beccantini19 dicembre 2020

Ai posteri l’ardua sentenza. Perché sì, sarà una sentenza: e di quelle toste. La Juventus, che con l’Atalanta aveva rischiato di vincere (molto) ma anche di perdere (abbastanza), ha letteralmente asfaltato il Parma, al Tardini. Parma con il quale condivide il record dei pareggi: ben sei. Parma che aveva costretto le milanesi, a San Siro, sul 2-2. Vi chiederete: quale sentenza?

Semplice: saprà dominare come ha fatto stasera, godere dei recuperi (Bentancur, McKennie) e non solo dei gol (Kulusevski, ex di turno, Cristiano, Cristiano, Morata), del pressing alto (come dicono a Coverciano) e non solo dei colpi di tacco? Saprà, fuor di metafora, giocare come risulta nella tesi di Pirlo: a testa alta, spingendo gli avversari sotto le loro tende (vedi alla voce Camp Nou), senza mai mollare, ripeto: mai, nemmeno sul tre a zero, se non al momento del conto?

Il Parma ha 12 punti, come il Benevento, e 6 in più del Crotone. Eppure né a Benevento né a Crotone Madama aveva giocato così. Mettiamoci pure il peso dei rivali – questi più sgonfi di quelli, forse – ma credo che la marcia l’abbia cambiata, soprattutto, la Juventus. Tornavano Kulu e Ramsey, un Ramsey curiosamente vivo: non era la formazione, però, la mossa che allontanava le montagne russe, storiche compagne di viaggio delle ultime versioni, da Sarri a Sua geometria. Era la ferocia.

Tranne un paio di errori di Cristiano e Bonucci, in avvio, tutto ha funzionato come un orologio: compreso Buffon, le due volte in cui Kucka ci ha provato. La coppia d’attacco veniva dalla partita più grigia, più piatta. Sempre sul pezzo e ciao Pep. Se mi chiedete il ruolo di Kulusevski, non lo so (a naso, non sulla fascia), però ha segnato. Alex Sandro sembrava un’ala. E persino Bernardeschi ha azzeccato un cross.

Ai posteri, ai posteri. Martedì arriva il primo: la Fiorentina.

Conta solo vincere, ma guarda…

Roberto Beccantini16 dicembre 2020

Per carità, Conte è Conte (e non Allegri), ma togliere Lau-Toro sopra di un gol e di un uomo proprio non l’ho capita. Il Napoli, alla terza sconfitta sul campo, avrebbe strameritato il pareggio, gliel’ha negato Handanovic: con una gran parata su Insigne, quando si era ancora sullo 0-0, e poi su Politano e Di Lorenzo, per tacere del palo di Petagna agli sgoccioli.

E’ il calcio, bellezze. Vittorie così, di sofferenza estrema, fanno morale: soprattutto se introdotte dal pari interno della Juventus e suggellate dal pari esterno del Milan capolista a Marassi, con il Genoa. Classifica libidinosa: Milan 28, Inter 27, Juventus 24, Napoli e Sassuolo 23. In attesa di Roma-Torino, del ritorno di Ibra, delle ultime sul tavolino di Juventus-Napoli.

Per un tempo, a San Siro, damigiane di camomilla. Da armistizio scritto. Il k.o. di Mertens, avvicendato da Petagna, un tiro di Martinez e uno di Zielinski. Tutto qui: ritmi bassi, difese preponderanti, Conte e Gattuso a giocare a scacchi senza re e torri.

Alla ripresa, un paradosso via l’altro. Il palleggio del Napoli strappava zolle a un’Inter ingessata, che neppure Barella riusciva ad agitare. Se il botta e risposta fra Insigne e Handanovic era il primo squillo della notte, il secondo l’ha orientata. Contatto Ospina-Darmian, rigore. Per Lukaku, una sentenza. Sarà Ringhio a svelare l’arcano del rosso sventolato da Massa a Insigne: vai a c… Però. Qual è il problema? Il problema è che certi falli di lingua vengono colti e sanzionati più di certe martellate.

L’Inter aveva perso Brozovic (dentro Sensi). Ecco: l’uscita di Lau-Toro e l’ingresso di Hakimi, in un momento che avrebbe dovuto suggerire ben altra gestione, hanno offerto al Napoli munizioni non rare. Si giocava a una porta, quella di Handa.

Resta «il» risultato. Quinto successo di fila. I prestazionisti battono in ritirata, mesti. A Fusignano, bandiere a mezz’asta.

Semel in Bronx

Roberto Beccantini16 dicembre 2020

Non può essere un caso se, in campionato, la Juventus non riesce a battere una grande. Perché «grande», oggi, non lo è ancora. Alludo al gioco, naturalmente, che Pirlo sta cercando di imporre perché la squadra lo imponga. Sapete del Papu e di Ilicic: senza, l’Atalanta resta un’idea, non corre più come una volta, non ha più la fantasia dei tempi belli, ma è sempre lì: un’idea, appunto, che spinge l’avversario, chiunque sia, a temerla. Anche così.

La Juventus lancia, l’Atalanta avanza. Migliori in campo, i portieri: Gollini (soprattutto) e Szczesny. I peggiori, Morata e Cristiano: il primo, con l’attenuante degli uncini di Romero e dei riflessi di Gollini; il secondo, con l’aggravante di essersi divorato un gol in avvio e di essersi fatto bloccare – bloccare, non parare – un rigorino. Girava al largo come se non volesse fare brutti incontri. Capita, semel in Bronx.

Scritto che Doveri ha diretto a spanne – che nesso c’è fra il contatto Hateboer-Chiesa, punito con il penalty, e la «grazia» a De Roon su Cuadrado? – Chiesa e Freuler hanno firmato reti splendide, per quanto Federico si sia spesso rintanato alla periferia del match (e con Gollini a terra, avrebbe dovuto fermarsi, alla Di Canio).

Di Pirlo, l’aggiustamento più valido rimane il pendolarismo di McKennie, ora rifinitore ora incursore. Magari, al posto del tecnico, avrei anticipato l’ingresso di Dybala, ma sono opinioni. Il Gasp, lui, ha pareggiato – curiosamente – dopo aver «liberato» Gomez, scrivendo l’ennesimo capitolo di una favola nel cuore della quale, tra le fatine, avrebbe fatto irruzione l’orco. La partita è stata «maschia», per usare un termine d’antan, equilibrata, con De Ligt e Zapata a contendersi il titolo dei massimi, vinto dall’olandese, e con la Juventus che, nei cortili domestici, sfoggia troppi tacchi (vero, Morata?). Imbattuta, sì, ma facilmente leggibile.