Conte e conti

Roberto Beccantini26 agosto 2020

Non aveva scelta, Antonio. Dimettendosi a due stagioni dalla scadenza del contratto avrebbe perso 24 milioni di euro. Netti. Fin dai tempi di Confucio, i cinesi sono molto pazienti ma pure molto ferrati nell’arte della guerra (Sun Tzu). Steven Zhang lo ha atteso al varco: io, licenziare uno stratega che mi ha fatto arrivare secondo in campionato e in Europa? Mai nella vita: anche se ogni tanto sbrocca; anche se ogni tanto hollywoodeggia. E così, per ora, rimangono tutti: Marotta, Oriali, perfino Ausilio.

Ha vinto il «Devo pensare alla famiglia» sbocciato a Colonia. E, perché no, l’incubo che Allegri potesse ripetere il «fallimento» di Torino, quando venne precettato d’urgenza al suo posto e qualcosina aggiunse ai mobili che aveva trovato.

L’Inter di Conte, l’Inter che Conte ha condotto a sette punti (effettivi) dalla Juventus di Sarri. E dal momento che Agnelli ha cambiato di nuovo pilota, Antonio ripartirà con il vantaggio, non lieve, di una continuità tecnica che Pirlo, viceversa, dovrà costruirsi. L’allenatore non si discute, per quanto debba imparare a gestire quella che chiamo la «politica del doppio binario», campionato ed Europa insieme e non separati. Il resto è un traliccio d’alta tensione, un po’ distratto (ai tempi delle scommesse di Bari e Siena) e sempre visceralmente sul pezzo. Se Mourinho fiutava i nemici fuori, Conte li «sente» dentro, nella società: a cominciare dai ristoranti, mai all’altezza dei suoi menu.

Chiudo con Messi. Ha 33 anni, gli stessi che aveva Cristiano l’estate in cui mollò il Real. Sarà vera fuga o, più terra terra, una mossa per cacciare l’attuale presidenza? Leo è Federer, un Federer che però ha giocato sempre e solo a Wimbledon (Barça). Cristiano è Nadal, un Nadal che però si è fatto gli Us Open (Manchester United), Wimbledon (Real) e Roland Garros (Juventus). E se la chiave, tardiva, fosse questa?

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Gli sceriffi, non gli sceicchi

Roberto Beccantini23 agosto 2020

Un francesino di 24 anni che la Juventus aveva prelevato dal Paris Saint-Qatar per poi cedere frettolosamente al Bayern ha firmato il gol, di testa, con il quale proprio il Bayern ha soffiato la Champions del post covid proprio al Paris Saint-Qatar. Kingsley Coman, lui. Preferito da mister Flick, il Di Matteo bavarese, alle malizie datate di Perisic. Uno a zero nella notte di Lisbona.

E così, per il Bayern, sono undici vittorie su undici, ed è la sesta coppa, fra la tripletta Beckenbauer-Gerd Muller del 1974-’76 e gli acuti del 2001 e 2013. Sceriffi, non sceicchi: bilancio sano, mercati mirati, una dittatura domestica (otto «scudetti» di fila) trasportata con pari efficacia a livello internazionale. Vinceva prima della pandemia, ha continuato dopo.

E’ stata una bella finale, molto fisica, qua e là tecnica, dalla trama netta: tedeschi, difesa alta e possesso massiccio; francesi, pressing saltuario e contropiede. Se Coman l’ha decisa, Neuer l’ha orientata, disarmando Neymar e Mbappé, zero gol dall’Atalanta a oggi. Hanno tradito i migliori: Neymar, Mbappé (soprattutto) e pure Di Maria, che la sua occasione l’aveva avuta, atteso al varco da quel Davies che non finisce di stupirmi.

Thiago Silva e Marquinhos hanno tenuto su la squadra. Hanno concesso poco, non è bastato. Piccole tracce di Verratti, nessuna di Icardi. Nel Bayern, non è mai entrato in partita Gnabry, leone con il Lione, mentre Thomas Muller ha lavorato, per una volta, più in tuta che in smoking. Lewandowski ha colto un palo e ingaggiato spasmodici corpo a corpo con i difensori, per ritardarne l’uscita. Vi raccomando Goretzka: pilone di mezzo, quantità e qualità.

Dirigeva Orsato: due episodi dubbi, una spinta (lunghetta) a Coman e un pedatina a Mbappé. Niente Var, niente risse da bar. E’ l’Europa, pazienti. L’Europa di un portiere e di un’ala. Come una volta.

Bayern-Paris, mondi lontani

Roberto Beccantini22 agosto 2020

Dall’Europa League alla Champions, dal Siviglia a chi: tra poco sapremo. Il Bayern è la tradizione che sa come vincere e perdere le finali: cinque a cinque. Il Paris Saint-Germain vi arriva da deb, 50 anni dopo la fusione che lo mise al mondo, e «solo» nove dopo l’invasione del Qatar.

Sono mondi lontani: il Bayern, figlio di un sistema che vieta agli sceicchi (o chi per loro) di impadronirsi dei club. Il Paris, goloso e imboccato dai cuochi dell’Uefa. Arbitrerà Orsato, e questo per l’Italietta che nella decade 2011-2020 non ha portato a casa nemmeno l’ombra di una coppa, costituisce un piccolo segno di visibilità.

Sul piano tattico, nessuna scintilla rivoluzionaria. Gli allenatori sono tedeschi, Tuchel già noto e Flick così «ignoto» da ricordare il Di Matteo del Chelsea campione nel 2012: ai rigori, e proprio contro i bavaresi. Dall’Atalanta, eliminata al pelo, al Lipsia, liquidata di slancio, il Paris è cresciuto: nell’equilibrio (difensivo, soprattutto) e nello spirito d’ingaggio. Il 4-3-3 con Neymar, Mbappé e Di Maria liberi d’attacco – non importa dove: importa e basta – ha snellito la manovra e spinto Icardi in panca.

In compenso, dall’8-2 al Barcellona al 3-0 al Lione, il Bayern è, come dire?, un po’ calato. Che non è il termine esatto, ma spero renda l’idea. Calato nel senso di distratto, Una linea difensiva così alta non la vedevo dai tempi di Zeman, e non è una battuta. Molte le palle-gol lasciate fra le macerie di casa Messi e ai violini di Garcia. Molte, troppe. Occhio: Neymar e Mbappé non hanno ancora segnato, provate a immaginarvi l’appetito.

Scritto che Alphonso Davies, 19 anni, riassume il coraggio e la competenza che sempre dovrebbero orientare l’idea di scouting, dico Bayern, senza però le certezze granitiche pre-Lione. Così, perché detesto il cinquanta e cinquanta. Voi?