Da Lukaku a Lukaku

Roberto Beccantini21 agosto 2020

Da Lukaku a Lukaku: rigore dell’1-0, 3-2 fallito, autogol del 2-3. Poi, naturalmente, il paraponzi arpiniano di un Conte isterico e lento (i cambi, i cambi), di un Lopeteguei che azzecca la mossa De Jong (doppietta di cabeza) e dell’Europa League che, per la sesta volta, bacia il Siviglia, squadra dal palleggio fino e il cuore grande.

L’Inter mi sembrava più completa e l’avevo scritto. Non così «perfetta», però, come millantato dalla propaganda. E’ stata una finale divertente per un tempo (reti di qua, reti di là) e poi schiava dello spirito del periodo, con i duellanti stremati e il risultato appeso alla riffa degli episodi. Di un’asprezza certificata dagli agguati, dagli svenimenti, dai reciproci mal di testa; e dai mani-comi che l’Europa, a differenza dell’Italia, sembra aver chiuso. Per fortuna.

Lukaku ne ha incarnato il simbolo, è stato Achille e il suo tallone. Non altrettanto Martinez, più Lautaro che Lau-toro. E dal momento che i duri entrano in campo quando il gioco si fa duro, ecco Godin. Nitidi i sentieri: il Siviglia, torello e fasce, soprattutto a destra (Jesus Navas-Suso); l’Inter, contropiede appena possibile (sul primo gol, per esempio) e sfondamento centrale.

Le finali sono imboscate, sono illusioni, sono tensioni. Come in caso di vittoria Steven Zhang avrebbe dovuto domare i ruggiti delle edicole, così, dopo la grande depressione, dovrà essere altrettanto sereno nell’evitare processi sommari a una stagione che lancia ufficialmente l’Inter – bocciata dalla Champions, semifinalista di Coppa Italia, seconda in campionato, finalista di Europa League – nella scia della Juventus. Non sarà tutto, ma con l’aria che titra…

Da Guardiola a Conte, il destino ha bocciato l’idea del tecnico fondamentalista. La stampa che pompa, i padroni che spendono e poi la ditta Sanchez-Eriksen in campo un quarto d’ora o poco più. Mah.

Il rumore dell’Inter

Roberto Beccantini17 agosto 2020

Sarà pure il calcio del dopo Covid, così isterico e così intrattabile, ma Inter-Shakhtar 5-0 fa rumore, non solo notizia. Era dal 1999, quando si chiamava ancora Coppa Uefa e la vinse il Parma, che non piazzavamo una squadra in finale. L’Inter, lei, ci ritorna a dieci anni dalla notte del Triplete.

Tyson ha sgonfiato Taison, giocando con le parole e alludendo a Lukaku che, per una volta, ha lasciato a Lau-Toro il bisturi e si è limitato a ricucire il paziente. Doppietta l’argentino, doppietta il belga, con D’Ambrosio autore del 2-0: un gol che, lì per lì, sembrò una liberazione. Buffo, no?

Il piccolo Brasile di Donetsk si è rivelato un Brasile piccolo, dai piedi sbiruli del portiere ai pisoli di difensori che gli avversari – Barella, Brozovic, Gagliardini, la stessa coppia d’attacco – mordevano in branco: e a ogni graffio, a ogni spallata, tutti giù per terra. Conte ha giocato la partita che aveva in mente, Castro l’ha subita anche quando, nel primo tempo, il possesso palla si era impennato fino al 61% per la libidine dei topi d’archivio. Degli ucraini, fra virgolette, non ricordo che una sgrullatina di Junior Moraes, murata d’istinto da Handanovic. Prima e dopo, né il pungiglione dell’ape né lo svolazzo della farfalla: sempre e comunque a rimorchio.

Inter-Siviglia, dunque. In questi casi il rischio, paradossale, è quello di farsi trasportare su un «vasel» da uno scarto così obeso. Conoscendo Conte, difficile che avvenga. Ne hanno vinte cinque, di Europa League, gli spagnoli, ma questa Inter sprizza salute da tutti i pori, nonostante le tappe post virus siano già 17; ha ritrovato i gol di Martinez, ha recuperato la solidità della difesa. Il lancio a Lukaku è lo schema base, non (più) l’unico. E se Barella arriva da Cagliari, non ne farei un drammma. Il rigore sbagliato dal Getafe fu un segno del destino: tutto il resto, destino della forza.

Sterling doors

Roberto Beccantini15 agosto 2020

Poveri pronostici miei gettati al vento, avrebbe chiosato il grande Camin. Altro che City: ancora Lione. E richiamare Sarri dopo il 2-1 dello Stadium, no? Scherzo. Il calcio del post Covid è una mannaia. Ghigliottinati tutti i geni: in campo (Cristiano, Messi) e in panca (Guardiola). Fra l’8-2 di Bayern-Barcellona e il 3-1 di Lione-Manchester City si agita, come dentro a una camicia di forza, la bellezza selvaggia dello sport, il suo relativismo a volte empirico a volte spietato, ma spesso giusto.

Ha giocato all’italiana, il Lione di Garcia (che, in un attimo di follia, mi permisi di segnalare a Marotta per il dopo Conte), difesa, chiappe e morsi: perché, scusate, voi come avreste giocato contro la flotta dell’ammiraglio Yamamoto? Il Pep aveva sbagliato formazione e atteggiamento, 3-5-2 (più o meno), con De Bruyne troppo largo, ma poi si è corretto e mai, comunque, i suoi abbagli potranno solo lontanamente rivaleggiare con lo sgorbio sotto porta di Sterling, fin lì uno dei più frizzanti (sarebbe stato il 2-2), e con l’erroraccio di Ederson, miccia del terzo. Vanno in campo i giocatori, non gli allenatori: il calcio non è cinema, una scena venuta male non si ripete.

Resta l’enormità della sentenza. Lione in semifinale, City a casa. Senza Messi, mi segnala un paziente, Guardiola non è mai arrivato neppure in finale. Senza Guardiola, mi scrive un altro, Messi una Champions l’ha vinta (con Luis Enrique). Si mettessero d’accordo: ma niente risse, per favore.

E’ il pallone, con i suoi tesori nascosti e le sue trame liquide, tre contropiede tre gol, i francesi: il primo di Cornet (su «seconda palla», a essere pignoli) gli altri di Dembelé, un panchinaro. Ribadisco: evviva Aouar. E adesso, Paris Sg-Lipsia, Lione-Bayern. Le squadre di chi si è fermato già a marzo (Ligue 1) e di chi ha ripreso e finito per primo (Germania). Su, allegri.