Caos calmo

Roberto Beccantini25 ottobre 2020

In bilico fra Dinamo e Barcellona, la Juventus ha ribadito quanto in campionato le sia difficile, senza Cristiano e senza schiaffi, domare i propri limiti e, quando capitano, gli episodi. Il Verona di Juric è una piccola Atalanta e per un’ora, finché ha avuto un centravanti, è stato aggressivo, geometrico, rotondo. Ha sofferto, ha rischiato, ha costretto gli avversari a rincorrerlo. Favilli aveva sostituito Kalinic, la boa. Plastico il gol dell’ex juventino, su chicca di Zaccagni (grande). Poi è uscito, stirato. E allora, catenaccione.

Se pensiamo alle traverse di Cuadrado e Dybala, ai centimetri che hanno spogliato Morata dell’ennesimo gol, e che gol, alle parate di Silvestri (non impossibili, comunque), all’ultima mezz’ora Pirlo può recriminare. Ma attenzione. E’ il terzo pareggio consecutivo, è la terza prestazione con più ombre che luci, anche se leggermente più vivace di Crotone (ci voleva poco).

Il pari l’ha firmato Kulusevski. Era entrato, troppo tardi, al posto di Bernardeschi, il solito fumo. Ha portato dribbling, freschezza, un briciolo di quel «casino organizzato» che serviva. E’ cresciuto Dybala, che titolare non era da una vita. Non mi sono dispiaciuti Cuadrado e Danilo. Il nuovo mister non ha ancora trovato la quadra. E dal momento che l’età stringe, i muscoli della vecchia guardia continuano a saltare: dopo Chiellini a Kiev, ecco Bonucci. Che Pirlo – per un tempo, almeno – aveva avanzato addirittura a centrocampo, tonnara nella quale tutti marcavano tutti, per cercare sfoghi alternativi al giro palla di Arthur.

Dell’Hellas ho apprezzato Lovato e Colley (che aveva pure segnato, ma in fuorigioco). Di Zaccagni ho detto. Era in maglia rosa, la Juventus. Un paradosso cromatico. In attesa di Milan-Roma, Inter e Napoli hanno vinto. Madama no. E mercoledì c’è Messi. Coppa dei Campioni e, pensando a Cierre, coppa dei tamponi.

Pelé 80

Roberto Beccantini23 ottobre 2020

Oggi Pelé compie 80 anni. E presto, il 30 ottobre, toccherà a Diego Armando Maradona: 60. Uno alla volta, please. Perla nera, perla rara, all’anagrafe Edson Arantes do Nascimento. Edson in onore di Thomas Edison, l’inventore della lampadina. E Pelé ne ha accesa, di luce. Chi scrive, aveva sette anni e mezzo quando O rei irruppe in Svezia dal buco della serratura che era, allora, la tv. Partì riserva, con Garrincha. E fu sul punto di essere bocciato, come Mané, perché, sì, insomma, bravo in campo ma zero fuori: hai capito i luminari do Brasil?

Ha giocato anche in porta, ha vinto tre titoli mondiali, il Santos l’ha consegnato alla cronaca, il Brasile alla storia, i Cosmos al business. Gli almanacchi parlano di 1,72 per 75 chili, ammesso che siano dettagli curiosi. Se Alfredo Di Stefano, per essere «tutto», ha dovuto ricoprire «tutti» i ruoli, a Pelé è bastato essere Pelé. L’essenza e la tendenza del calcio. Destro, sinistro, testa: più di mille gol, narrano i biografi, e una valanga di targhe a raccontare il più bello, il millesimo, l’ultimo.

Se però devo riassumerlo in un attimo, non scelgo un gol. Scelgo un quasi gol. Un frammento di Brasile-Uruguay ai Mondiali messicani del 1970. Il passaggio è di Tostao. Pelé punta Mazurkiewicz. La palla scorre rapida, vogliosa. Pelé non la tocca. La immagina. E gira attorno al portiere, confuso, che lo aspetta al varco, dove può e come può. La più leggendaria e disumana finta di corpo che ricordi. Non importa l’epilogo (O rei recupera l’equilibrio e, mentre un difensore uruguagio barcolla e crolla, sfiora il montante). Importa l’eresia del gesto. Aver pensato un’idea capace di resistere persino ai centimetri dell’errore. Essere andato al di là delle barriere della ragion pura. E mi fermo qui per non cadere nell’apologia di «beato».

E’ stato genio in campo ed «embedded» fuori.
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Inter, i soliti difetti

Roberto Beccantini21 ottobre 2020

Una tantum, l’Europa rovescia il campionato: tre vittorie e un pari contro tre sconfitte e un pari. L’unica a non vincere, l’Inter. Dall’1-1 con lo Slavia al 2-2 con il Borussia Moencheccetera la differenza è stata l’impatto, meno vago. Dopodiché, siamo alle solite: ammesso che i dogmi siano pericolosi – e la difesa a tre, per Conte, lo è diventata – in campo vanno i giocatori e sono proprio loro a tracciare i confini. Nel bene, Lukaku, con la doppietta che prima illude e poi salva; nel male, Vidal, prima il rigore «ignorante», trasformato da Bensebaini, e poi la pennica sullo scatto di Hofmann. E dal momento che il Real si è fatto battere in casa da uno Shakhtar spolpato (dal covid), ecco a voi il girone polveriera.

C’era Eriksen trequartista: bollicine. C’era Sanchez: periferia. Altro discorso, Lau-Toro: che palo, quel palo. Perisic a tutta fascia è una cintura di castità, e Darmian al posto di Hakimi, beccato dal virus, non meno intraprendente ma non proprio la stessa lama nel fianco. L’ha fatta l’Inter, la partita, un‘Inter sorda e grigia: i tedeschi hanno cercato di sottrarle gli episodi, ma non ricordo emozioni memorabili.

Nel round dedicato ai centravanti (Morata, Immobile, Zapata) non poteva mancare Lukaku: il solito ciclope. Ricapitolando: nel derby, Kolarov. In Champions, Vidal. E se nella posizione «centralista» del serbo c’era lo zampino di Antonio, nelle fotte del cileno c’è solo la testa di lui medesimo. Patti chiari.

C’è del calcio, in Danimarca. Il calcio dell’Atalanta. Direte: rifilarne quattro al Midtjylland non sarà mica un’impresa. Può darsi. Ricordo, però, una Juventus che, mutatis mutandis, non andò oltre l’1-1 in un paio di gite a Copenaghen. Zapata, il Papu (che sberla, pazienti!), Muriel e l’ultimo arrivato, Miranchuk (un bacino). Napoli brucia ancora, ma il Gasp ci ha messo su un bel cerotto.


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