Dalla gaffe di Agnelli ai rigori di Diakhaby e al poker di Ilicic, la cronaca si mescola con la storia, senza distrarci dall’emergenza bellica, questo no, questo mai. Ci spalanca un’impresa, l’Atalanta per la prima volta nei quarti di Champions, e una partita che, dopo il 4-1 di San Siro, è finita in 2′ per poi rotolare verso il 4-3 complessivo e compulsivo del tabellino.
Mancavano, al Valencia, fior di titolari e il Mestalla vuoto gli ha tarpato le magre munizioni a tracolla. Ciò premesso, l’Atalanta di Gasperini si trascinava un peso e una passiome: quello, imposto; questa, creata. In casi del genere si rischia sempre di calcare l’enfasi, ma come si fa a restare freddi di fronte a una squadra alla quale si può imputare al massimo di non saper gestire (pure stasera), non certo di lesinare emozioni, di risparmiare sui garretti, sulle idee?
Percassi, naturalmente. E visto cosa ha fatto il Gasp di Ilicic? Era il sabba della discontinuità , a 32 anni sembra la lampada di Aladino. E crdetemi: non ha combinato nulla di straordinario, almeno stavolta. Due penalty e due gran botte di sinistro. Si è preso il risultato, la scena, il pallone, tutto. Con i soliti brontolii da «nonnina» di Carosello; con quel ciondolìo che, ruolo a parte, mi ha riportato ai tempi di Harald Nielsen, il prence danese del Bologna scudettato (guarda come dondolo, guarda come dondolo).
L’Atalanta era al gran debutto, e il campo, con o senza popolo, per quanto possa fornire sentenze isolate, fuggenti, va sempre preferito ai diritti di casta. E’ difficile parlare di argomenti che non siano bollettini di guerra. Al pallone non si chiede di sedarci: soprattutto, in questi avventurati giorni. Gli si chiede, semplicemente, di non diventare un altro problema. Non è un vaccino, la Dea guerriera di Valencia: è un bacino. E mi raccomando: restate a casa.