Sterling doors

Roberto Beccantini15 agosto 2020

Poveri pronostici miei gettati al vento, avrebbe chiosato il grande Camin. Altro che City: ancora Lione. E richiamare Sarri dopo il 2-1 dello Stadium, no? Scherzo. Il calcio del post Covid è una mannaia. Ghigliottinati tutti i geni: in campo (Cristiano, Messi) e in panca (Guardiola). Fra l’8-2 di Bayern-Barcellona e il 3-1 di Lione-Manchester City si agita, come dentro a una camicia di forza, la bellezza selvaggia dello sport, il suo relativismo a volte empirico a volte spietato, ma spesso giusto.

Ha giocato all’italiana, il Lione di Garcia (che, in un attimo di follia, mi permisi di segnalare a Marotta per il dopo Conte), difesa, chiappe e morsi: perché, scusate, voi come avreste giocato contro la flotta dell’ammiraglio Yamamoto? Il Pep aveva sbagliato formazione e atteggiamento, 3-5-2 (più o meno), con De Bruyne troppo largo, ma poi si è corretto e mai, comunque, i suoi abbagli potranno solo lontanamente rivaleggiare con lo sgorbio sotto porta di Sterling, fin lì uno dei più frizzanti (sarebbe stato il 2-2), e con l’erroraccio di Ederson, miccia del terzo. Vanno in campo i giocatori, non gli allenatori: il calcio non è cinema, una scena venuta male non si ripete.

Resta l’enormità della sentenza. Lione in semifinale, City a casa. Senza Messi, mi segnala un paziente, Guardiola non è mai arrivato neppure in finale. Senza Guardiola, mi scrive un altro, Messi una Champions l’ha vinta (con Luis Enrique). Si mettessero d’accordo: ma niente risse, per favore.

E’ il pallone, con i suoi tesori nascosti e le sue trame liquide, tre contropiede tre gol, i francesi: il primo di Cornet (su «seconda palla», a essere pignoli) gli altri di Dembelé, un panchinaro. Ribadisco: evviva Aouar. E adesso, Paris Sg-Lipsia, Lione-Bayern. Le squadre di chi si è fermato già a marzo (Ligue 1) e di chi ha ripreso e finito per primo (Germania). Su, allegri.

C’è sempre da imparare

Roberto Beccantini14 agosto 2020

Da Brasile-Germania 1-7 a Bayern-Barcellona 8-2. Figli di Lutero, i tedeschi detestano il commercio delle indulgenze. Hai peccato? Devi pagare fino in fondo; al diavolo grazie, sconti, condoni. Così fu a Belo Horizonte, così è stato a Lisbona. Il Bayern di Flick: e non di Guardiola. Di un carro attrezzi precettato d’urgenza. C’è sempre da imparare.

Uno scarto epico, una vittoria storica, una sconfitta mortificante. Mai come in questo caso gli estremi si toccano e l’enfasi ha diritto di cittadinanza. Non è stata una partita, è stato un massacro, salvo le scaramucce introduttive, quando la difesa zemaniana dei bavaresi aveva rimesso in gioco i troppi Ronzinante di Messi. Ma se il Bayern difendeva alto, il Barça proprio non difendeva: e questo, nonostante il 4-4-2 di Setien, povero vaso di coccio, con Sergi Roberto al posto di Griezmann.

Ricapitolando: Thomas Muller, autogol di Alaba, Perisic (ala pura, non «a tutta fascia» come nei piani di Conte), Gnabry, ancora Muller, poi Suarez, quindi Kimmich (il terzino destro, su azione garrinchana di Davies, canadese, 19 anni, il terzino sinistro), Lewandowski e due volte Coutinho. A parlare di dominio fisico, tecnico e tattico si rischia di fare la figura degli scappati da cattedra. E allora mi fermo.

A Messi era bastata una mezz’oretta, contro il Napoli. A 33 anni, i dribbling cominciano a pesare, come per Cristiano: soprattutto nel deserto (dal ter Stegen dei piedi ingessati al Vidal scomparso, per tacere di Lenglet e Piqué). Ma ripeto: sarebbe come sparare sulla croce rossa.

Pure io avrei scommesso su coloro che nel Novecento chiamavamo panzer, e che oggi attaccano alternando le sportellate al palleggio fino. Eppure, al di là di tutto quello che è successo, e non mi sembra poco, per la Champions continuo a dire City.

C’est la vie

Roberto Beccantini12 agosto 2020

Sono crollati sul traguardo, come Dorando Pietri a Londra. I guerrieri del Gasp ci hanno regalato pagine di calcio e di vita, hanno onorato al meglio un popolo ferito, hanno dato tutto. Non è bastato: capita. In semifinale ci va così il Paris Saint-Germain, 50 anni oggi e, alle spalle, uno stato al posto di una città: il Qatar.

L’Atalanta si era alzata dai blocchi fiutando l’aria. Il gol di Pasalic le aveva trasmesso fiducia. Sapeva chi aveva di fronte: nominalmente, una squadra; in pratica, un fuoriclasse (Neymar) al quale, nella ripresa, se ne sarebbe aggiunto un altro: Mbappé. Calcio mistero senza fine buffo: proprio Neymar si mangiava due gol fatti: il primo, fragoroso, addirittura sullo 0-0.

Strada facendo, la Dea ha perso il Papu e a cambi esauriti, proprio negli attimi in cui tutto si è deciso, Freuler: uno dei migliori con De Roon. Non poteva non menare un po’, l’Atalanta, e l’ha fatto. Gasperini le ha insegnato a giocare da «dentista»: sistema puro, uomo contro uomo, e sempre avanti, mai indietro. Non andategli a dire che, nel finale, un briciolo di prudenza non sarebbe gustato: vi risponderà che ognuno ha il suo stile, e il suo è quello. Catenaccio, solo se mi obbligano: appunto.

Uno a zero fino al 90’, poi Marquinhos, poi Choupo-Moting, un altro della panchina (a proposito) al 93’. Lo so, fa male perdere così. D’altra parte, questa è la Champions e l’Atalanta, alla riffa degli episodi estremi, era in dieci e con le bombole di un 2000, Da Riva, a mendicare ossigeno.

C’è chi può ricorrere a un carro attrezzi come Mbappé e chi no: lo sport impiega spesso i sentieri più illogici (alludo alla trama, ai due mondi in campo) per atterrare sul risultato più logico. Thiago Silva è stato una trave, Icardi una pagliuzza, Malinovskyi una stampella fragile. Anche adesso che non c’è più niente da fare, penso che sia stato bello sognare. C’est la vie.