Ma (loro) sono ancora qua: eh già

Roberto Beccantini1 luglio 2020

La Lazio in rimonta, ancora. La Juventus in scioltezza, ammesso che sia il termine esatto per raccontare questi safari in savane deserte. Un rigore di Belotti (da un mani-comio di Immobile) aveva costretto le Aquile a lasciare subito il nido. Il Toro, sgonfio, si è messo tutto dietro, aspettando la sentenza come Beckett aspettava Godot. Uno spunto di Immobile e una carambola Parolo-Bremer rovesciavano il risultato. Gli assist di Luis Alberto restano moneta sonante (e costante).

A Marassi la Juventus ha dominato. Il Genoa era una colonia di ex (Perin, Masiello, Sturaro, Cassata, Favilli, più il «neo» Romero), la casa madre l’ha subito schiacciato. Nel primo tempo, diciamo così, ha preso la mira: penso ai tiri di Cristiano (due) e Bernardeschi, alle parate di Perin. Nel secondo ha calato gli assi. Letteralmente: slalom di Dybala e sinistro filante; fuga e sassata del Marziano; gran «giro» di Douglas Costa, la stessa traiettoria che sfoderò a Benevento. Là dove le lavagne non arrivano, ecco gli scolari più dotti.

Credo che Inzaghi e Sarri saranno contenti: Simone, per la reazione; «C’era Guevara», per il giropalla un po’ più rapido. Salvo l’ultimo quarto d’ora, quando la pancia piena ha agevolato il gol di Pinamonti (bello), prima rete incassata nelle ultime sei partite (dall’Inter in poi). Cristiano e Dybala continuano a segnare in coppia. Chi ricorda cosa erano Toro-Lazio e Genoa-Juventus una volta, non può non provare una fitta al cuore. E il virus, in questo caso, conta poco: c’entra il business che ha spinto lo sport lontano dai vecchi e cari equilibri.

Scusate lo sfogo. Continuano a piacermi De Ligt, Bentancur e Cuadrado. E, sull’altro fronte, Acerbi e Milinkovic-Savic. Mancano nove turni, sabato il derby allo Stadium e Lazio-Milan. Il campionato «alla» Dorando Pietri avvince, comunque.

La miglior difesa, ma guarda

Roberto Beccantini27 giugno 2020

L’esperto guarda la prima mezz’ora; il tifoso, il risultato. In Clinica, per fortuna, esistono anche gli esperti-tifosi, la cui analisi la immagino così: mamma mia, che Juventus addormentata fino al rosso di Lucioni; perfino De Ligt (poi fra i migliori). L’uomo in più, che già con il Milan se n’era andato in cavalleria, è stato coltivato e innaffiato con l’umiltà dei Matuidi terzini (e in difficoltà su Rispoli, almeno in avvio).

Insomma: Cristiano continuava a mangiarsi gol fatti, Dybala bighellonava sornione, non uno che sembrasse la luna (fin troppi, in compenso, le dita che, sbadigliando, la indicavano). A poco a poco l’inferiorità numerica ha portato la Juventus nell’area del Lecce, e il Lecce, non pago del suo Lucioni, ha moltiplicato gli omaggi: sciocchezza di Shakhov, convertita da Cristiano nell’astuccio per il gioiello dell’Omarino; il rigore di Rossettini, trasformato da Cierre. A riempire il tabellino avrebbero provveduto Higuain, dalla panchina, e De Ligt: quinta partita senza gol al passivo, a proposito. La miglior difesa, Madama. La peggiore, i salentini.

Il paziente ultrà aggiungerà che la «fotta» di Lucioni è stata procurata dal pressing di Bentancur e il penalty dalla malizia di Cristiano: agguati, non episodi. Che è felice per il battesimo di Simone Muratore, 22 anni, già dell’Atalanta, e normalmente annoiato dal tran-tran di Pjanic, già del Barcellona. Che è, inoltre, arrabbiato con Douglas Costa dal quale vorrebbe vedere più spesso, e in circostanze meno «sdraiate», i dribbling esposti in vetrina nell’ultimo quarto d’ora. E che, dimenticavo, la rete del Pipita farà morale e titoli (a segno tutti gli attaccanti).

Sarriball o Sarrismo, il calcio del dopo-Covid, se escludiamo l’Atalanta e il primo tempo della Lazio a Bergamo, è questo: con il suo calendario rock e i suoi ritmi un po’ così.

Trenta e (finalmente) lode

Roberto Beccantini25 giugno 2020

La cronaca ha fatto pace con la storia, il Liverpool è campione d’Inghilterra. Non succedeva dal 1990: era appena caduto il muro di Berlino, doveva ancora nascere la Premier. Trent’anni. Un secolo fa. Da Kenny Dalglish, scozzese, a Jurgen Klopp, tedesco. Dai gol di Ian Rush alle reti di Mohamed Salah. La proprietà è diventata americana, i docks non sono più quelli, macilenti, dei romanzi, il Mersey scorre sempre placido e noioso, la Kop non è più un antro, il mondo del calcio (e non solo) era cambiato e volato via, con «destino» Manchester.

I Reds erano rimasti là (eh già): ai dribbling di Kevin Keegan, alla leggenda e agli slogan di Bill Shankly e del suo cerchio magico (Bob Paisley, Joe Fagan); alla strage dell’Heysel e alla carneficina di Hillsborough; alla scivolata di Steven Gerrard contro il Chelsea di José Mourinho.

Il Liverpool degli anni d’oro, passing game al ritmo dei Beatles, le Coppe dei Campioni del 1977, 1978, 1981, 1984, più quella di Rafa Benitez ai rigori sul Milan (2005), con Jerzy Dudek santo per una notte, fino al tripudio del Wanda, 2-0 agli Spurs. Diciotto «scudetti» e poi a dieta. Posti d’onore, al massimo, quando non mercati del disonore. Con tanta confusione, con tante delusioni. Sir Alex e ciao Pep, Arsène Wenger e Mou. Persino il Leicester di Claudio Ranieri: e i rossi sempre lì, in bilico sui cornicioni di Anfield, l’archivio (e l’Europa) come unica corda alla quale appendersi per vedere il vuoto con la rabbia dell’orgoglio.

Improvvisamente, Klopp. Un pressing feroce per strappare la saga dal sortilegio prima ancora che la palla agli avversari. Un calcio verticale, profondo, e quel tridente là (eh già), Sadio Mané, Roberto Firmino, Salah. Anche se la svolta è arrivata da un portiere (Alisson) e un difensore (Virgil van Dijk). Non erano mai stati soli prima, figuriamoci adesso. «At the end of a storm there’s a golden sky». Sempre. Trenta e, finalmente, lode.