Calma e sangue Kean

Roberto Beccantini8 marzo 2019

L’infortunio di Barzagli, che compirà 38 anni a maggio, e la doppietta di Kean, che a febbraio ne ha fatti 19, hanno accompagnato la Juventus verso l’Atletico. A scrivere di Juventus bellina – nonostante il turnover o proprio per il turnover – si rischia di fare un complimento ad Allegri, non sia mai, e di trascurare la modestia dell’Udinese di Nicola. Un paziente tifosissimo del Napoli, P. G., vi ha colto lo stesso impegno che il Parma riservò ai suoi cocchi, oltre che quasi lo stesso risultato (4-1 invece di 4-0).

Era la 200a. allo Stadium e questa «amichevole» non c’entra un tubo con il Cholo e con l’impresa che urge. Tornerà in panchina Moise Kean, un ragazzo che ci sa fare, come ha ribadito nel daje di punta del secondo gol e nella sportellata con Opoku che ha propiziato il rigore. Ci sa fare, appunto: e allora lasciamolo fare.

E Spinazzola? Un terzino «tutto fascia», per usare lo slang post-moderno, che il sottoscritto confermerebbe addirittura martedì, al posto dello squalificato Alex Sandro. Penso a François La Rochefoucauld e a Fabrizio De André: «I vecchi cominciano a dare buoni consigli per consolarsi di non poter più dare cattivi esempi». Vecchio lo sono, ma Spinazzola e non Caceres sarebbe davvero un buon consiglio?

In compenso, la battuta della settimana non riguarda il rinnovo di Mandzukic, il mio «sostituibile» preferito, ma quella di alcuni passamontagna: esonerare Allegri in caso di eliminazione. Nell’estate del 2014 non lo avrei preso, carta canta, ma questa le batte tutte.

L’ingresso di Nicolussi (classe 2000) e il gol di Lasagna hanno suggellato la classica quiete che precede la tempesta, un momento ambiguo e stagnante in cui gli augelli e la gallina, prima di «tornare in su la via», aspettano di conoscere le mosse del poeta.

Suicidio e castigo

Roberto Beccantini7 marzo 2019

Esce, la Roma, in una bufera improvvisa di Var, la trattenutina di Florenzi e il rigore di Telles, il piede di Marega fra i piedi di Schick con il silenzio-dissenso della regia polacca e dell’arbitro turco, Cakir. Si era ai supplementari di un ottavo sporco e infinito. La squadra di Di Francesco non avrebbe meritato di arrivarci, così come all’Olimpico il Porto avrebbe meritato ben altro scarto, ma per come stava lottando persino l’avversario, non meno stravolto, le avrebbe alzato il braccio.

Invece no. Dzeko si era prima beccato con quel provocator dei provocatori che è Pepe e poi si è mangiato un paio di gol. Sergio Conceiçao aveva recuperato Corona e Marega, un armadio che ricorda le ante di Hasselbaink. In vantaggio con Soares, il Porto ha pagato caro il penalty di Militao su Perotti, trasformato da De Rossi.

Ecco: lo stiramento del capitano (e, molto puù in là, di Pellegrini) è stato un segnale sinistro. La Roma, che era tornata in partita, vi è subito ri-uscita, fino alla lotteria compulsiva e conclusiva. Di Francesco aveva battezzato la difesa a tre. Tutti hanno dato tutto, ma Zaniolo, per esempio, non era certo il Doncic dell’andata. Con il 4-3-3 l’atteggiamento sarebbe stato più coraggioso? Scrivere sì non mi costa niente, anche se non ci faccio una gran bella figura. Sono sincero: mi sarei aspettato di più da Perotti, da Kolarov, soprattutto da Dzeko.

Di Francesco va confermato, naturalmente. Potrà aver sbagliato qualche scelta, parlo in generale, ma mettevi nei suoi panni: ogni anno gli vendono l’argenteria e lui deve ripartire da zero o quasi. Il Porto non è il Porto d’antan, quello che si arrampicava in cima all’Europa con lo stile di Artur Jorge e lo stiletto di Mourinho. Si è buttato sulle briciole e le ha tolte di bocca alla Roma. La Champions è così, e il Var, a seconda del tifo, rimarrà sempre un gran figlio di moviola.

La meglio gioventù

Roberto Beccantini5 marzo 2019

Giocare a calcio è semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile. Lo disse Cruijff, mi è venuto in mente nell’ammirare, estasiato, i suoi «nipotini» prendere in giro il Bernabeu. Real uno, Ajax quattro: e così Real fuori già negli ottavi e Ajax ai quarti. Il sentimento va oltre i dati, che pure sono enormi. La meglio gioventù è andata al potere in una notte di marzo che, almeno alla vigilia, sembrava prigioniera della solita retorica. Alla faccia dei pronostici: persino il re deposto e umiliato ne ha riconosciuto i meriti.

E’ proprio vero che per ordire una rivolta basta un capo, mentre per fare una rivoluzione serve un’idea. E l’idea dell’Ajax, anche dopo la sentenza Bosman e gli alti e bassi delle generazioni, tale è rimasta: calcio verticale, veloce, ricamato, non più ossessivo e possessivo ma sempre bello, coraggioso, leggero.

Tadic – due assist, il secondo con ruleta, e un gol – sembrava Messi, poi De Jong la bussola, De Ligt il pilone, Ziyech e Neres le frecce. L’allenatore si chiama ten Hag, e un genio non risulta che sia. Là dove la scuola pulsa, i geni in panchina non servono (più).

L’impresa dell’Ajax restituisce il calcio a una dimensione quasi giocosa, da strada: sono scintille, queste, che in cenere non si ridurranno neppure in caso di eliminazione. Si sapeva che il Real di Solari fosse in crisi, ma non al punto di implodere. Il destino, già benevolo all’andata e probabilmente disgustato dall’autosqualifica di Sergio Ramos, il capitano, questa volta se n’è lavato le mani. E così: i due pali, l’infortunio di Vinicius, fin lì il più pimpante, il Var sulla rete di Tadic, il rosso a Nacho. Pagliuzze in una foresta di travi.

Era il Real delle tredici Champions, delle quattro vinte nelle ultime cinque edizioni, il Real campione in carica. Senza Zidane e Cristiano che, a naso, qualcosa dovevano aver fiutato.