Don Rodrigo

Roberto Beccantini1 dicembre 2018

Obeso è lo scarto, non il resto. Non, soprattutto, la ricetta vegana con la quale la Juventus cannibale continua a saziarsi nei ristoranti di questa avventura Little Italy. Perché sì, alla fine della giostra, Firenze città d’arte non meritava un risultato così netto, zeroatre, ma la Juventus è la Juventus, chissà quanto – e come – avrebbe vinto con Sergio Leone e non Rainer Fassbinder in panca.

Il gol di Bentancur, lindo come l’azione che l’ha propiziato, complice il dai-e-vai con un Dybala, poveretto, sfrattato dall’area, ha orientato la trama. Credo che la squadra di Pioli, e non sarebbe certo uno scoop, abbia sentito troppo l’impegno. Penso al primo tempo di Chiesa, alla latitanza ormai cronica di Simeone, alla polvere di Benassi. In riva all’Arno, dove dovrebbero sciacquarsi anche gli untori delle scritte infami sull’Heysel e Scirea, la rivalità è diventata un mare di benzina tra flotte di cerini. E così la carica, spesso, non esplode: implode.

Non c’era Pjanic, c’era Cuadrado mezzala, un frullatore di troppe cose, c’era De Sciglio su Chiesa. Imbattuta in casa, la Viola è rimasta in partita fino al gollonzo di Chiellini, e in un paio di occasioni aveva flirtato addirittura con il pari.

Il solo fantasticare che Allegri mi avesse letto sarebbe un atto di arroganza, ma dopo aver trasformato il rigore, procurato da Mandzukic chi?, Cristiano Ronaldo è stato sostituito. E’ la prima volta che succede alla Juventus. Così come era la prima volta che, dopo il «giallo Pjanic», Orsato dirigeva Madama. Non sono mancati gli episodi da moviola, tutti di non facile lettura ma tutti , per fortuna, nell’area di Lafont (o un pelo fuori).

Per concludere, due parole su (don) Rodrigo Bentancur. Ha 21 anni e, ogni partita che passa, lo trovo più verticale. C’è vita, in regia, oltre Pjanic.

Quanti maghi dei cambi…

Roberto Beccantini28 novembre 2018

Mai chiosarlo durante, il calcio. Si rischia. Meglio riassumerlo alla fine. E, di conseguenza, trasformare le mosse (sbagliate) in scosse. Alludo, naturalmente, a Tottenham-Inter. Fino all’80’, Wembley dava l’idea di un placido limbo, non certo di un inferno. E dalla traversa di Winks alla gran parata di Lloris su Perisic nemmeno Salgari avrebbe tratto spunti per uno dei suoi romanzi.

L’Inter controllava il Tottenham che stava controllando l’Inter. Né l’infortunio di Nainggolan, visto il contributo di Borja Valero, aveva prodotto sconquassi tattici. Il centrocampo funzionava, e come. Pochettino era partito senza Son ed Eriksen, scelte che, al di là della spesa energetica contro il Chelsea, mi erano sembrate stravaganti. Dal compito svolto, gli Spurs hanno pensato più alla Juventus della stagione scorsa, che li impallinò all’italiana, che all’Inter dell’andata, sfida che sembrava segnata e invece liberò la garra charrua.

Dal momento che il gol l’ha segnato Eriksen, Pochettino passerà per il mago dei cambi, argomento sul quale uno che conosco potrebbe scrivere un libro. E’ il calcio, mistero senza fine buffo. Ha sbagliato, l’Inter, a fidarsi del poco che gli avversari cucinavano, ad accontentarsi di un punto quasi mai in pericolo, a non stanarli come avrebbe potuto. E così un episodio, un’azione (bella) e un gol, uno solo, hanno stravolto tutto: dal tabellino alla percezione di grandezza strategica dei rispettivi mister.

L’Inter resta favorita ma non è più padrona del suo destino. Il Napoli invece sì. Ha regolato in scioltezza la Stella Rossa, anche se il gol incassato, sul 3-0, potrebbe avere ripercussioni nefaste sulla differenza reti. Decisione ad Anfield, dove Ancelotti sbarcherà da primo del girone.

Nei miei pronostici d’agosto, Inter e Napoli non erano favoriti. Sono ancora lì, e addirittura quasi là.

Szczesny, poi i soliti

Roberto Beccantini27 novembre 2018

Sì, l’assist molto bello di Cristiano per Mandzukic chi? Ma prima una paratona di Szczesny su Dhiakaby e sempre il martello del dottor Chiellini. E così la Juventus è qualificata, anche se il primo posto se lo giocherà a Berna. Non è stata una partita memorabile, tutt’altro. Cristiano, Mandzukic e Dybala si sono cercati, e sono stati cercati, senza la velocità e la precisione che la differenza di livello avrebbe sollecitato.

Undicesimo nella Liga e titolare della miglior difesa, il Valencia ha lasciato il possesso palla agli avversari, buttandosi sul contropiede (quando poteva) e blindando i varchi: sulle ali (Cancelo, Alex Sandro), al centro, ovunque. E felice, immagino, di presentarsi alla lotteria degli ultimi minuti con pochi biglietti ma, soprattutto, sotto di un gol, uno appena.

I rari brividi, per Madama, sono arrivati – come contro i guerrieri di Mourinho – dalle punizioni, dagli angoli, dai cross. Parca, viceversa, è stata la produzione del «tridente». Un po’ per il lavoro sporco al quale gli schemi, questi «impostori», costringono il croato; un po’ perché non può sempre pensarci il marziano; e molto perché Dybala mi è sembrato lontano da troppo, non solo dall’area. Non era facile districarsi nella giungla di Marcelino: ci hanno provato Bonucci con i lanci; Bentancur e Pjanic con il fraseggio, Matuidi con i rammendi. In questi casi, rimane l’ultimo passaggio a scolpire il confine, per quanto il governo territoriale possa essere netto.

Aveva dominato più con lo United, la Juventus. Questa è stata un’ordalia più rognosa, più film da Fassbinder che western. E non ci si dimentichi Szczesny. Non significa arrampicarsi sugli specchi per rigare i meriti globali. Una «mano» gliel’ha data poi lo stesso Dhiakaby, ma che parata, quella parata. Feroce o poetica, la solitudine del portiere resta spunto da romanzo.