FIRT

Roberto Beccantini11 novembre 2018

Fabbrica Italiana Risultati Torino. E’ la Juventus di campionato, zero sconfitte in trasferta nel 2018 e 34 punti in 12 partite (record). Le emozioni, quelle, sono un optional. Allegri non ne va matto, se poi, quando ci sono, succede com’è successo con lo United.

Il 2-0 a un Milan decimato è figlio di un gol lampo (un classico) e di una gestione un po’ così (un altro classico) fino al raddoppio di Cristiano, che a San Siro, su azione, non aveva mai segnato. Tutta l’arena aspettava il marziano e Higuain. Il Pipita è un tipo emotivo, si sa, il Var gli ha «restituito» un chiaro rigore sfuggito a Mazzoleni e Szczesny, complice il palo, gliel’ha brillantemente rintuzzato. Non è la prima volta che Higuain cicca penalty cruciali. E’ il suo limite, più nervoso che tecnico: l’unico. La frustrazione, a lungo covata, l’ha poi portato all’accesso di isteria che gli è costato il rosso agli sgoccioli.

Sono stati i terzini a propiziare i gol: Alex Sandro (uno dei migliori, su Suso e oltre), quello di Mandzukic (al rientro); Cancelo, con l’aiutino di Laxalt, quello di Cristiano. Se l’ordalia è stata lenta e bruttina, lo si deve alla differenza di categoria fra le squadre e al modo in cui la più forte ha curato la pratica, un palleggio dominante ma leggero, con pochi tiri e rare occasioni (un palo di Dybala su punizione). Di Allegri non ho capito la rinuncia a Bonucci. L’ha sostituito Benatia, sempre sul pezzo, talvolta anche troppo: da kamikaze folle, il primo giallo su Bakayoko a metà campo; da dotti seminari il secondo «alla memoria» nel caso della sbracciata.

Non c’è paragone tra la Juventus di mercoledì, anti Mou, e la Juventus del Meazza, brontolano i prestazionisti. Molto più brillante, la Signora europea. Ma sento già i risultatisti: questa però ha vinto. E Szczesny non è più l’anello debole.

Punti esclamativi

Roberto Beccantini6 novembre 2018

Va bene così, soprattutto a San Siro: ma anche al San Paolo, visto cosa aveva combinato il Liverpool a Belgrado (altro che eccesso di zero: peggio, molto peggio). Con Messi in tribuna, il Barcellona palleggia nel cortile di Brozovic e lo cancella dalla notte. Si regge, l’Inter, sulle parate di Handanovic e il cemento armato di Skriniar e De Vrij.

«Made in Ramblas»: detto fra di noi, non è un brutto giocare. Si possono perdere (o pareggiare) le battaglie, ma poi, se e quando vinci le guerre, entri nella storia. Come al Camp Nou, la squadra di Spalletti ha fatto quello che ha potuto: poco, ma abbastanza – questa volta – per recuperare con il tremendismo del solito Vecino e il bisturi del solito Icardi. La magia degli ultimi minuti: fatali al Tottenham, fastidiosi al Barça.

Per i senzaMessi aveva realizzato Malcom, «quello» che sembrava della Roma. Non Suarez, non Coutinho, non Dembélé. Il calcio è (anche) questo. Che lezione, che reazione: con gli 80 mila di San Siro in brodo di giuggiole.

Mica fesso, Tuchel. Via una punta (Cavani, addirittura) e centrocampo più imbottito. Con Buffon e Thiago Silva al rientro, preziosi ma protagonisti della frittata del rigore su Callejon (scattato in fuorigioco?). Nel primo tempo, meglio il Paris, a segno con Bernat, uno dei nuovi. Nel secondo, meglio il Napoli. I duelli tra Koulibaly e Mbappé sono stati entusiasmanti, straripanti. Da Neymar mi sarei aspettato più tiri e meno cross. Ancelotti aveva riproposto la formazione del Parco. Non è stato facile liberare Insigne, autore del pari, e Mertens. Nella tonnara di metà campo è volato di tutto, compreso l’ennesimo giallo per Verratti, sempre dentro la partita (ai suoi ritmi, però).
Morale: l’Inter ce l’ha quasi fatta, il Napoli può farcela. E non è che i pronostici d’agosto fossero molto clementi.

Il bello della sofferenza. O no?

Roberto Beccantini3 novembre 2018

Non proprio di goleada come Napoli e Inter, ma con la sofferenza che spacca i giudizi, merito degli avversari o no? A naso, il Cagliari mi è sembrato più sodo di Empoli e Genoa (soprattutto), ma il mio naso non è quello che ispirò «Uno, nessuno e centomila» a Pirandello. E così sono dieci, le vittorie della Juventus di Allegri, tredici su quattordici calcolando la Champions.

Difficile fare di più: possibile, ogni tanto, fare meglio. Il gol lampissimo di Dybala (scivolando, scivolando) sembrava l’incipit di una cavalcata. E’ stato, invece, il segnale – inconscio, condiviso? – di una frenata non inedita. Szczesny ha soffiato il pari a Pavoletti, Joao Pedro l’ha strappato a Cancelo.

Madama è stata fortunata nel harakiri di Bradaric, sfortunata nel palo di Cristiano, gregario honoris causa. Madama è una tiranna con tratti di umanità, come documentano le reti lasciate a Genoa, Empoli, Cagliari. I sardi avrebbero potuto addirittura pareggiare con Pavoletti, in mischia, un attimo prima del 3-1 timbrato, in contropiede, dalla ditta Cristiano-Cuadrado.

Nessuno è perfetto. Nemmeno la Juventus. Che però lo sa, e si adegua (anche troppo, a volte). I picchi di Manchester e Udine spingono i dibattiti a paragoni estremi (e, spesso, estremisti). Con questa gara è finito il calendario «dolcetto»: dal Milan a San Siro, dopo la parentesi Mourinho, comincia la striscia «scherzetto». La rosa è la più ricca, oh yes, ma il centrocampo incerottato frena le geometrie (di Pjanic, in particolare).

Per i feticisti delle moviole, la serata ha offerto molta carne al Var. Tre episodi: il gol di Dybala (sul filo del filo); il testa-braccio di Benatia (non rigore per il lodo Collina); la spalla-braccio di Bradaric (per l’arbitro più spalla, per me più braccio). Cos’altro? La Juventus non chiude le partite. Vero. Ma Bentancur sta crescendo. Vero anche questo.