Bentornati tra noi

Roberto Beccantini20 ottobre 2018

La Juventus è la più forte, in Italia: è giusto dirglielo ed è giusto che, ogni tanto, se lo dica anche lei. Non però, possibilmente, quando i biglietti, prenotati, non sono stati ancora ritirati. Come con il Genoa. Che, tirando non più di due volte, l’ha costretta al primo stop dopo dieci vittorie.

Era il Genoa che Preziosi aveva sottratto a Ballardini e affidato a Juric. Il risultato farà, della mossa, una svolta. Aveva segnato Cristiano, complice un ingorgo Piatek-Radu, Cristiano che aveva colpito anche un palo. Cristiano, l’unico con licenza di caccia: e questo è un limite, non una forza.

Vero, Mandzukic non era lui (no, no: era proprio lui, dirà il partito degli anti), e la dormita di Bonucci e c. sul gol della ditta Kouamé-Bessa è stata omerica. Non c’era Chiellini e Bonucci, ci sia o non ci sia il capitano, patisce terribilmente gli stacchi altrui, da Stepinski a Babacar. Sarebbe il caso di prenderne nota.

Neppure la panchina (Douglas Costa dopo un mese, Dybala, Bernardeschi) ha fornito la scintilla che, di solito, cambiava il panorama. Allegri non è riuscito a impedire che la squadra si dimettesse: avrebbe potuto forse anticipare qualche staffetta, anche se Douglas Costa, un disastro, era entrato sull’uno a zero.

La testa a Old Trafford, là dove Cancelo dovrà misurarsi verosimilmente con il Martial della doppietta a Sarri, non è un’ attenuante. E nemmeno la sosta. Il Genoa ha avuto il merito di restare comunque in partita, persino nel primo tempo, quando rivali meno vanesi l’avrebbero demolito. E dal momento che il destino era in vena, per il pareggio ha scelto Bessa, un centrocampista, e non Piatek, fin qui sempre a segno.

Si chiamano bagni d’umiltà. A meno che lo United di Mourinho, martedì, non decida o ci costringa a chiamarli in un altro modo.

C’è vita

Roberto Beccantini14 ottobre 2018

La Nazionale di confine ha fatto un passo avanti oltre la dogana della diffidenza, dei mondiali visti in tv, dei problemi la cui soluzione, in campionato, affidiamo spesso agli stranieri. L’1-0 di Chorzow vale molto più della salvezza in Nations League. Ha prolungato, sul piano del gioco, il primo tempo di Marassi, contro gli ucraini, e incerotta le statistiche: non si vinceva una partita ufficiale dall’ottobre 2017 (1-0 in Albania), Mancini aveva preso sempre gol.

Non penso che lo zero a zero avrebbe confuso il partito dei prestazionisti, ma di sicuro ai tavoli dei risultatisti qualche tappo sarebbe saltato. Tanto tuonò che non piovve: più o meno. E invece, agli sgoccioli degli sgoccioli, il Biraghi fin lì senza infamia e senza lode ha preso la metà riffa che è il calcio e l’ha calpestata con l’altra metà che è scienza, o arte o giustizia.

Splendido il «passaggio» di Biraghi a capitan Astori. Che poi la spizzata aerea, sull’angolo di Insigne, l’abbia prodotta Lasagna – e non l’Immobile che molti invocavano – bé, questi sono i piccoli episodi che fanno grandi e fortunati i generali. Generali che, come il Mancio, la iella aveva scortato per 93’ meno un corner.

Nel mio piccolo avevo suggerito di giocare come il Portogallo: di tecnica, di palleggio. La Polonia, di una fisicità legnosa persino in Lewandowski, solo a metà ripresa, dopo i cambi, ha azzeccato un paio di contropiede, sventati da Donnarumma o sprecati da Milik. I nostri l’hanno occupata e disarmata fin dall’inizio, come documentano le traverse di Jorginho e Insigne, le parate di Szczesny su Jorginho, Chiellini e Florenzi, i tiri di un Bernardeschi che, sotto porta, deve essere più freddo. Da Verratti al tridentino, la conferma della formazione è stata la chiave. In altri tempi, e con altri centravanti, avremmo vinto tre o quattro a zero. Ma è un limite, questo, che non intacca i meriti.

Sempre lì, a metà

Roberto Beccantini10 ottobre 2018

Un buon primo tempo, sì, ma la musica non cambia: segniamo poco e almeno un gol lo prendiamo sempre. Anche dall’Ucraina di Shevchenko, 29a. nella classifica Fifa (noi, ventesimi). Era l’amichevole che la Nazionale ha dedicato alla tragedia di Genova, era la sesta partita della gestione Mancini, la cui unica vittoria risale ormai al 28 maggio: 2-1 all’Arabia Saudita.

Per un’ora abbiamo giocato e tirato solo noi. Pyatov, fin lì il migliore, ha poi spalancato la porta a Bernardeschi. Punto e a capo. E’ cominciata un’altra partita: con il pareggio di Malinovskiy, le incertezze di Donnarumma e gli avversari più vicini al raddoppio, come documentato dalla traversa dello stesso Malinovskiy e dal contropiede di Tsygankov a fil di palo.

Troppi fuorigioco, il tridente leggero, al netto di trame che avrebbero giustificato una mira più «cattiva». Bernardeschi è in vena, e anche per questo ogni tanto si allarga un po’; Insigne e Chiesa hanno alternato cose belle a cose banali, la conferma di Jorginho e il ritorno di Verratti hanno moltiplicato il torello di centrocampo, propedeutico per metà gara a blitz decisamente efficaci (nella ripresa, non più: o molto meno).

Barella, al battesimo, si è buttato dentro senza se e senza ma. Promosso. Abbiamo avuto poco dai terzini (Florenzi, Biraghi), abbastanza dai centrali (e da Bonucci, sempre più in attacco che nelle chiusure). Le staffette, da Immobile in giù, non sono riuscite a opporsi a una flessione collettiva che la carica dell’ultimo quarto d’ora, più di nervi che tecnica, ha cercato invano di mascherare.

Domenica, in Polonia, non si scherza: il punticino raccolto in Nations League ci costringe a una mezza impresa. Si riparte da Marassi, dalle facce ambigue di una prestazione che non promuove e non boccia, e per questo ci lascia ancora con il cerino in mano.