Gli episodi, i portieri

Roberto Beccantini6 luglio 2018

La Francia sarebbe stata favorita comunque, figuriamoci con l’Uruguay senza Cavani e con Muslera, uno dei tanti portieri-lotteria che stanno popolando la roulette russa del Mondiale. E così bleus due celeste zero.

Un quarto di nobiltà più sulla carta che sul campo, ma non si può sempre pretendere champagne o mate di qualità. Hanno vinto i più forti, hanno deciso gli episodi. Nel primo tempo, colpo di testa di Varane su punizione di Griezmann e gol (imparabile); colpo di testa di Caceres su punizione di Torreira e gran parata di Lloris. Nel secondo, papera di Muslera sul più innocuo dei dardi che Griezmann abbia mai scagliato e giù il sipario.

La stampella di Tabarez era una croce, non più uno scudo. Troppo grezzo, Bentancur, e troppo spaesato, Vecino, perché il minuscolo Torreira potesse tener botta ai Pogba, ai Kanté, ai Tolisso. E Suarez, orfano del Matador, più che il pistolero è stato costretto a fare la sponda, il suggeritore: per gli Stuani di turno.

Per vincere, la squadra di Deschamps non ha avuto bisogno d’inventarsi l’urlo di Munch. Ha presiditato i valichi, ha ridotto i rischi, ha imposto il suo fisico. E colpito con un’efficacia quasi italiana. Lo stesso Mbappé, che aveva asfaltato l’Argentina di Messi, si è preso un po’ di scena e perfino una sceneggiata, alla Neymar, a conferma che fra teatro e teatrino i confini rimangono vaghi, golosi.

Della Francia un cenno lo meritano Pavard e Hernandez: terzini che, come chioserebbe Bagnoli, fanno i terzini. L’Uruguay si fermò negli ottavi anche in Brasile. La Francia, in compenso, non arrivava in semifinale dal 2006. Adesso che il dato è tratto, non resta che tornare ai portieri. Lloris, Muslera. Li si trascura sempre. Anche perché, spesso, alla loro porta il «postino» non suona che una volta. Troppo poco per farci un film, ma abbastanza per farci la morale.

Da Boniperti a Cristiano

Roberto Beccantini4 luglio 2018

Nel giorno in cui Giampiero Boniperti compie 90 anni, si continua a parlare – sempre, e sempre di più – di Cristiano Ronaldo alla Juventus. La prima notizia è documentata e documentabile; la seconda non ancora. Mi viene in mente, tanto per legare il fatto al fattibile, quando proprio lui, Boniperti, volò a Buenos Aires per prendere Diego Maradona. Su dritta di Omar Sivori, alla vigilia della riapertura delle frontiere (estate 1980). Mancava solo l’annuncio e a «Tuttosport», dove lavoravo, lo aspettavamo da una telefonata all’altra. Le pagine erano già pronte, «flanate». Doveva essere uno scoop. Lo venne a sapere Enrico Heiman della «Gazzetta» e scoop non fu. E neppure orgasmo, visto che la Federazione argentina si irrigidì e bloccò Diego, bloccò tutti. Fino, almeno al mondiale successivo, nel 1982.

Giocatore, capitano, consigliere, presidente, amministratore delegato, presidente onorario: Boniperti è stato tutto. Su quanto ha vinto, e se avesse potuto vincere di più (in Europa, soprattutto), il dibattito rimane aperto. Negli anni Settanta, quando forgiò una delle Juventus più forti di sempre, la Juventus che fornì nove titolari (titolarissimi, diremmo oggi) alla Nazionale quarta in Argentina e sei, ma senza il k.o. di Bettega sarebbero stati sette, all’Italia prima in Spagna, le frontiere erano chiuse. Con gli Agnelli alle spalle, non era poi così difficile, e Boniperti l’ha sempre ammesso: «due mezzali come l’Avvocato e il Dottore sul mercato non si trovano».

Ha rubacchiato a Vince Lombardi guru del football americano, che secondo alcuni lo aveva sfilato ad altri, lo slogan che è diventato la filosofia aziendale: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». Qualcuno l’ha preso fin troppo alla lettera (Massimiliano Allegri, dicono). Qualcun altro lo esecra sui social e ne gode in bagno. Auguri, presidente.

Più perfida di così…

Roberto Beccantini3 luglio 2018

Rieccola, la perfida Albione. Ha avuto bisogno dei suoi «assassini» storici, questa volta, per far fuori la Colombia: i rigori. Proprio loro, i killer di tanti sogni, di tante ambizioni, di tanti equivoci.

I cafeteros le rendevano James Rodriguez, che è come togliere la Gioconda al Louvre. Non solo: la crisi di nervi con la quale avevano «difeso» l’abbraccio di Carlos Sanchez, sempre lui, quello della «parata» più rosso con i giapponesi, sembrava aver scavato un confine netto, profondo. Sono passati cinque minuti, e una nuvola di vaffa, prima che Kane, l’abbracciato, potesse battere (e trasformare) il penalty. Un arbitro meno tollerante avrebbe fatto una strage (pure con Maguire e la sua simulazione, sia chiaro).

Ecco. La partita, anche perché sin lì l’avevano fatta più gli inglesi dei rivali, pareva segnata. E invece è ricominciata. La squadra di Southgate ha mollato un po’ la presa e Pekerman ha imbottito Falcao di punte: Bacca, Muriel. Sfiorato il pareggio con Cuadrado (tiro alto) e ricavata benzina preziosa da Uribe (oltre a una sventola pizzicata da Pickford), la Colombia ha pareggiato al 93’ o giù di lì su un’azione che, sacri testi alla mano, avrebbe dovuto essere patrimonio esclusivo dell’England: un calcio d’angolo. Mina, pivottone di 1,95, se li è mangiati tutti, compreso Stones. Terzo bersaglio, dopo Polonia e Senegal.

I Dele Alli, i Lingard, gli Sterling hanno sofferto la polvere da sparo che si alzava quasi a ogni tackle. Non poteva essere una notte da rime baciate. Non lo è stata. E i supplementari non potevano che prolungare l’agonia. Ai rigori, Ospina ha parato su Henderson e Pickford su Bacca. Balla la traversa di Uribe. Il suggello è stato di Dier, contagiato dal bis di capitan Kane.

E così, nei quarti, l’Inghilterra affronterà la Svezia più Ikea che Anitona (Ekberg), galvanizzatissima dai sermoni di Ibra.