Caro amico mi arrendo

Roberto Beccantini20 maggio 2024

Sul 3-0, con il Bologna dominante e Madama a reggergli lo strascico, avevo pensato a questo titolo: «Calafiori e calabrache». Per l’avvio ventre a terra del dottor Balanzone; per il gol del difensore e il raddoppio di Castro nel giro di 10’, suggellati, in avvio di ripresa, dallo scavetto di Riccardo cuor di leone, un terzino sparato al centro della difesa. E per il cosiddetto contesto: calcio contro calci; pressing contro cipria. Una sola squadra al comando e l’altra sazia (zona Champions, Coppa Italia), stordita, inguardabile.

Era la prima di un dopo. Da una parte, il celofuturista Thiago Motta, di trasloco (così dicono). Dall’altra, il celodurista Montero, di traghetto. Con Giuntoli e la sua Camelot, in tribuna, per nulla allegri. Ma allora perché 3-3?

Perché il calcio è pazzo, luogo comune (forse). Perché Thiago ha tolto i migliori (da Calaccetera a Freuler) e Paolo il caldo i peggiori (fra i quali Vlahovic, l’eroe dell’Olimpico). Perché la Dotta, priva di Ferguson e Zirkzee, non poteva immaginare che; e la Vecchia bene immaginava cosa. Fatto sta che, sotto la pioggia del Dall’Ara, Chiesa profittava di un errore di Lucumi – così come, in precedenza, i sodali del colombiano avevano banchettato sulle altrui licenze e indecenze – e infilava di sinistro; Milik segnava su punizione, complice la schiena di Fabbian; Yildiz, assatanato, stangava di destro. Il tutto, in otto minuti, dal 76’ all’84’. E ancora Chiesa, quasi quasi…

Note a margine: è tornato Fagioli, dopo i sette mesi di squalifica. Thiago e Montero si sono abbracciati a lungo. «Caro amico ti scrivo» a palla, la musica della Champions, i fuochi d’artificio, lo stadio discoteca e non più salotto, la gioia per una stagione indimenticabile. E una notte che si accomoda in archivio sull’onda di episodi ed emozioni che l’hanno stravolta. Caro amico mi arrendo.

Brutta fine, dopo tre anni di troppo

Roberto Beccantini17 maggio 2024

Ecco: la musica è finita, gli (ex) amici se ne vanno. «Il futuro non è un posto migliore, ma solo un posto diverso», ammonisce lo scrittore statunitense William Least Heat-Moon in «Strade blu». La frase sembra tagliata su misura per Massimiliano Allegri e la Juventus, ora che si sono sono separati dopo tre anni di troppo, in barba alla conquista della Coppa Italia e, soprattutto, alla scadenza del 2025.

Isterico, solitario y final. Lo spogliarello di mercoledì notte, con annesse accuse, allontanamenti e minacce in puro stile Padrino – nell’ordine: agli arbitri, a Cristiano Giuntoli, al direttore di «Tuttosport» Guido Vaciago – appartiene all’indecoroso repertorio degli allen-attori che pensano di averne subite troppe per non togliersi qualche sassolino (e magari, sullo slancio, qualche giacca). Mancano due giornate al termine, e gli obiettivi possibili – zona Champions, coppa – erano stati raggiunti. Dunque, non trovo poi così coraggioso l’esonero anticipato. Anche se ballano sette milioni netti, i dettagli legali non mi interessano; e sui comportamenti etici, per carità: nulla da eccepire, a patto che valgano sempre, e per tutti.

L’impresa del Feticista è stata di dividere il popolo gobbo: dalla filosofia del corto muso alla pagliacciata di Roma (e se l’avesse fatta Antonio Conte, paladino della juventinità?). L’errore, clamoroso e fatale, fu richiamarlo nell’estate del 2021. Lo commise Andrea Agnelli. Non era più il Gestore del Quinquennio. Era un benestante fermo da due stagioni, in ritardo sull’evoluzione asimmetrica del calcio, ma curiosamente nel mirino di Real e Inter. Perse subito Cristiano Ronaldo, e si perse. Quarto, terzo (sul campo, senza handicap), quarto. Più la Coppa Italia.
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Coppa in serbo

Roberto Beccantini15 maggio 2024

Era la fine di un’era, l’era dell’Allegri bis. E’ stata vittoriosa, orgogliosa e dignitosa. A parte lo spogliarello con l’urlo «Vergogna» e la domanda che, sputata da un mister gobbo, farà il giro del Web: «Dov’è Rocchi?». E’ la quindicesima Coppa Italia, la quinta del Max espulso. L’Atalanta esce in bolletta e Gasp trafitto dalle solite frecce: un milione di idee ma zero titoli.

Le finali vanno vinte. Il gioco viene dopo. Madama l’ha vinta perché aveva il centravanti, Vlahovic, e la Dea no: Scamacca squalificato, De Ketelaere fuori posto, Touré disarmato. Il serbo: voto otto. The best. Subito in gol (un bel gol: di destro, su imbucata di Cambiaso), concessionario di un probabile rigore (di Hien), autore di un raddoppio cancellato da un offside di mezza scarpa.

La partita. Se non è stata l’Atalanta che per un’ora aveva asfaltato la Roma, c’entra la pressione, sì, ma anche (posso?) il muro mobile di una squadra che, fra Nicolussi Caviglia e Iling-Junior, ha interpretato e applicato al meglio l’unico calcio che, sotto questa gestione, sa produrre. Il palo scheggiato di Lookman non eguaglia certo la traversa di Miretti. Sul piano degli episodi, e delle occasioni, nessun dubbio: Juventus. Sul resto, scannatevi pure: Atalanta 66% di possesso, Juventus 34%. Certo, una rondine non fa primavera e forse, pensando all’allenatore, neppure la indica: ma era un atto senza appello, e come tale il risultato merita rispetto. Soprattutto, se sofferto e voluto.

Per 99′ hanno cercato un ago nel pagliaio, i bergamaschi. Gli è stato nascosto. Non era la Juventus del girone di ritorno, tutta sbadigli e topiche. E’ stata una Juventus sempre sul pezzo, chiusa, sì, ma non a chiave. Non il miglior Chiesa. Il miglior Vlahovic. Zona Champions, Coppa Italia: dopo tre anni complicati, il futuro sarà diverso, non so se migliore. Sicuramente di un altro. E alla Dea, auguri per Dublino.