Harakiri

Roberto Beccantini2 luglio 2018

Harakiri, altro titolo non mi viene. E’ stata una partita pazza che, sfuggita alle cicale, era stata raccolta dalle formiche, a loro volta riprese e poi stecchite da un contropiede coast to coast che da Tokyo a Bruxelles si rinfacceranno nei secoli, senza capire bene il movente e le movenze.

Belgio avanti, dunque, e Giappone a casa. E’ successo tutto, e di tutto, nella ripresa. Haraguchi (con la complicità di un legnoso Vertonghen) e Inui (gran tiro) avevano scardinato una difesa molto allegra, molto lenta. La fanteria leggera di Nishino, che ruotava attorno a Yoshida e Kagawa, invadeva ogni zolla, controllava ogni valico. Martinez l’ha recuperata con i cambi: i chili di Fellaini e Chadli. Tra i bocciati, Mertens: che ala non è più. Le staffette, la stazza e l’aviazione: se la zuccata di Vertonghen (a sua insaputa) ha pareggiato, nel rapporto fortuna-sfortuna, il palo di Hazard sullo 0-1, il colpo di testa di Fellaini appartiene al repertorio dei pesi massimi.

Errori, episodi, sprazzi di classe: alzi la mano chi non si è divertito. Gli sventagli e i triangoli del Giappone; i dribbling di Hazard e quelle azioni di forza, tipo rugby, pur di aprirsi un varco. I supplementari sarebbero stati l’approdo più degno, anche perché, passati col giallo (dei cartellini), i nippo erano stati massacrati dai pronostici (il mio: 60%-40% pro Belgio).

Un fantasma, De Bruyne; imbottigliato, e comunque impreciso, Lukaku. Ma preziosi, entrambi, nell’arrembaggio della svolta. Rimane il problema della copertura: da risolvere in fretta, visto il cliente che si profila nei quarti. Il Brasile.

E così dietro l’«angolo» il Giappone ha trovato l’inferno. Era il 94’, mancava un pugno di secondi; Honda non l’ha nascosta, la palla. L’ha crossata. Il destino non ha gradito. E ha affidato a Chadli il compito di urlarlo al mondo.

Sognare a occhi aperti

Roberto Beccantini2 luglio 2018

Nel Mondiale dell’«avanti popoli» la tradizione si aggrappa a quelle maglie che il Brasile adottò dopo il Maracanazo del 1950. Per quanto sia un torneo molto elitario – 20 edizioni, 8 padroni – mai come questa volta la Bastiglia sembra alla portata di molti.

Il Brasile la difende come può, come sa: e, talvolta, come vuole. Ha liquidato il Messico per 2-0, rispettando pronostico e statistiche; ha proposto Neymar, l’ultimo dei samurai scampati alla strage, nei panni di uomo-gol e uomo-assist, al netto delle sceneggiate che continuano a moltiplicare i moccoli perfino nei bar del suo Paese.

I messicani ci hanno provato con l’arma del contropiede veloce, soprattutto nel primo tempo. Quando non sono stati disarmati, hanno sbagliato, sistematicamente, il tiro o l’ultimo passaggio. Ochoa, in compenso, li ha tenuti in partita sino agli sgoccioli. Il migliore è stato uno dei peggiori delle prime uscite: Willian. Ha slalomeggiato fra i sombreristi, ha spalancato la porta a Neymar, ha reagito all’ombra lunga di Douglas Costa.

Da Dani Alves e Marcelo a Fagner e Filipe Luis il salto è stato brusco, ma non tragico. Merito di Tite e di una fase difensiva che sin qui, paradossalmente, si sta rivelando il confine più netto. Tite insiste con Gabriel Jesus così come, in Spagna, Bearzot non abbandonò mai Paolorossi. Non a caso, ha sostituito un Coutinho «tergicristallo», non lui. E proprio il sostituto, Firmino, ha siglato il raddoppio.

Casemiro era diffidato: ammonito, salterà i quarti. E’ pronto Fernandinho, luccchetto di riserva. Quando gioca il Brasile, si spera sempre nel colpo a effetto. Eppure la sua storia è piena di gloriosi e incredibili suicidi. Ci vollero Pelé e Garrincha per aggiornare le gerarchie. E Ronaldo per ribadirle. Sogna sempre, ma ha imparato dall’Europa a farlo a occhi aperti.

Portieri d’azzardo

Roberto Beccantini1 luglio 2018

Con i rigori, che per agitare il dibattito chiamo ogni tanto «lotteria», il Mondiale ha scoperto d’improvviso l’esistenza dei portieri. Non quelli gialappeschi dei primi turni, loro sì un terno al lotto, ma i professionisti del poker, gli specialisti del gioco d’azzardo. Akinfeev (2 parati), Subasic (3, addirittura) e lo stesso Schmeichel, figlio d’arte (1 + 2). La citazione del danese non è un omaggio alla «salma»: se si è arrivati al poligono del dischetto, molto lo dobbiamo proprio a Schmeichel, che ne aveva neutralizzato uno, nei supplementari, a Modric (che poi, da uomo di ghiaccio, si prenderà la rivincita).

E così è la Croazia a raggiungere i quarti. Una Croazia subito sotto (M. Jorgensen) e subito in parità (Mandzukic), gol rocamboleschi, con flipperate di schiena e di grugno. Una Croazia che, zavorrata dal pronostico, ha patito la fisicità e il cambio di marcia degli avversari: da cassa di risparmio a piccolo esercito im missione.

Quando i migliori sono i guerrieri come Mandzukic, è difficile (non certo per colpa loro) che il livello tecnico tocchi vertici sofisticati. Modric ed Eriksen hanno cercato di prendere per mano le squadre, riuscendoci solo in parte. Il talento croato è stato, così, sgonfiato braccio di ferro dopo braccio di ferro.

Dalic e Hareide sono allenatori «di mezzo», cognomi e non ancora nomi, eppure il loro calcio non mi è parso né vecchio né nuovo: mi è parso calcio. Sono i fuoriclasse, e in campo non ce n’erano, tranne Modric, che portano al salto di livello.

Era la Danimarca di Kjaer e Cornelius, lontana dalle vetrine dei Laudrup e degli Elkjaer. Della Croazia mi ha colpito Rebic, non Perisic. Rebic si è costruito il rigore che avrebbe potuto evitare gli altri. Sui quali, poi, Subasic ha speso molto dei suoi riflessi e molto incassato dalle tensioni altrui, lui che era stato il primo a cadere, non senza qualche peccatuccio.