Imperfetto ma sa soffrire

Roberto Beccantini27 giugno 2018

Del Brasile si dice sempre che non gioca di squadra, che vince grazie ai singoli. E’ successo tante volte, ma non mi pare che stia succedendo in questo Mondiale. Anzi. Ha il portiere (Alisson), una coppia difensiva di navigata malizia (Miranda-Thiago Silva), due lucchetti in mezzo (Casemiro-Paulinho) più Coutinho, finora il «dieci» più brillante, Gabriel Jesus (così così) e il Neymar sempre in volo, metaforicamente e no, un po’ ballerino e un po’ libertino.

La Serbia era un avversario molto fisico, in perenne altalena fra le potenzialità di Milinkovic-Savic e le pause di Ljajic. Ha avuto le sue occasioni, si è presa i suoi rischi ma non dispone del serbatoio di talento che, viceversa, bacia la Croazia. Non le mancano i Mandzukic: le mancano i Modric.

La partita non poteva che essere di lotta, vista la tonnara di centrocampo, prigione dalla quale Coutinho ha fatto evadere Paulinho. Il raddoppio è venuto su corner di Neymar e smash aereo di Thiago Silva.

Mi metto nei panni di Tite: da Dani Alves e Marcelo a Fagner e Filipe Luis il salto non può essere innocuo. Nel calcio moderno, le fasce sono cruciali: in assoluto e, soprattutto, in relazione al traffico del centro. Aiutano ad allargare e snellire l’azione, per questo servono piedi che non siano solo da terzini d’antan, ma molto di più: come, appunto, gli alluci dei titolari, mezzali parcheggiate in corsia. E non trascurate il k.o. del Douglas Costa che aveva aperto la scatola di Costa Rica, un’ala alla quale Allegri ha allungato il campo (o che ha allontanato dalla porta: busta numero uno, busta numero due, scegliete).

In un Mondiale senza padroni, e con i campioni della Germania già fuori, il Brasile ha dimostrato di saper soffrire. Non è un’esclusiva, ma aiuta a crescere.

Scoppiati

Roberto Beccantini27 giugno 2018

Suvvia, ditemi voi se Germania-Corea del Sud non è stata un inno al calcio, all’unico sport che, giocandosi con i piedi, può trasformare un assedio in qualcosa di clamorosamente corretto? Nel basket, che si gioca con le mani e non contempla i portieri, i tedeschi avrebbero vinto, come minimo, di venti punti. Invece: Corea del Sud due, Germania zero.

E vai, allora, con la retorica che nel destino dei Grandi c’è sempre una Corea, da Middlesbrough a Kazan; con l’elogio dei «ridolini» (?) che, pur eliminati, hanno dato tutto difendendo ogni sentiero come se fosse questione di vita o di morte (e invece era solo questione di orgoglio). Tra parentesi, in un Mondiale che sta sancendo la crisi del ruolo, la Corea ha dimostrato di aver un signor portiere, l’allampanato Jo.
E la Germania? Avevamo appena finito di celebrarne la volontà feroce che l’aveva spinta, tra meriti e puntini puntini, oltre la Svezia. «I tedeschi non muoiono mai» è uno slogan che ha fatto storia. E con un ricco dossier a supporto. Questa volta non sono morti: sono scoppiati. Gli avversari correvano, loro camminavano. E senza centravanti, hai voglia di raccogliere le briciole che la cronaca, distratta, può lasciarti. I gol di Kim e Son (con Neuer lontano lontano) sono piombati alla fine dell’agonia, quando la larga vittoria della Svezia (sì, la Svezia senza Ibrahimovic) li stava spingendo alla spasmodica caccia di un gol qualsiasi.

Adesso, naturalmente, il modello tedesco sarà schiaffeggiato e irriso, esautorato e vilipeso. Difficile salvarne qualcuno, facile esecrarli tutti: il lento Khedira, lo sterile Ozil, l’impreciso Kroos (proprio lui, l’angelo salvatore), il grezzo Gomez, l’inutile Muller, il panoramico Reus. Mai successo che la Germania uscisse al primo turno di un Mondiale. Ci sarebbe voluta una goccia di Messi, almeno. Da tedeschi, sono usciti tutti insieme.

Caos bello

Roberto Beccantini26 giugno 2018

Resta ferita, l’Argentina, ma non è morta. Ha battuto la Nigeria, affronterà la Francia negli ottavi. Sono partite come il wrestling di San Pietroburgo che rendono unico il calcio. Fate finta che sia un cassetto e apritelo: troverete di tutto. Due bellissimi gol: Banega-Messi (gran controllo di coscia, grandissimo destro di controbalzo), Mercado-Rojo (splendida volée di destro). La sciocchezza di uno dei più scafati, il jefesito Mascherano, rigore e pareggio di Moses. Il palo di Leo su punizione, le due occasioni di Higuain, e solo la prima complicata dal coraggio di Uzoho. Emozioni dal campo, brividi dalle ombre di Croazia-Islanda.

Insomma: se cercate l’estetica guardiolesca, per carità; ma se vi basta la «bellezza» selvaggia che può derivare dai gesti dei singoli, dagli errori, dalle luci e dalle ombre che scortano gli snodi della vita, bé, allora siete i benvenuti.

Messi, certo. Aveva sbagliato un penalty con l’Islanda, era scomparso con la Croazia. Lo aspettavamo al varco. Ha indirizzato la sentenza, è tornato dentro le cose. E poi Sampaoli. Ci scanneremo: l’ha cambiata lui, la formazione, o gliel’hanno cambiata? Ha azzeccato la staffetta tra Caballero e Armani, almeno così è sembrato. Nel primo tempo, più Banega e Di Maria che non Obi Mikel, Moses e Musa. Nel secondo, gli argentini sono calati, Di Maria su tutti, anche perché subito affondati dal rigore, e questo non può essere un alibi; i nigeriani invece sono cresciuti, come già contro i grattacieli islandesi.

L’Argentina si trascina problemi seri a centrocampo e in difesa: la palla circola lenta, e le brecce, non appena il ritmo si alza o il morale si abbassa, esplodono. Ha ritrovato gli «episodi Messi», non meno suggestivi dei «momenti Federer», e le munizioni dei gregari. L’importante è non passare da un eccesso all’altro. Non sarà facile, ma conviene.