Troppa grazia

Roberto Beccantini28 aprile 2018

Era il derby d’Italia, non poteva non diventare una polveriera. La Juventus se l’è preso in rimonta, in piena zona Koulibaly, dopo essere stata rimontata. Fatale il rosso che, via Var, Orsato (4) ha inflitto a Vecino per una martellata a Mandzukic. Poco da dire. Molto da dire, se mai, sugli sconti applicati a Barzagli (su Icardi), a Pjanic (in generale, come se fossimo in Europa e giocasse nel Real) e a Skriniar (su Higuain). Fuoco alle moviole.

In undici contro undici, Douglas Costa aveva spaccato l’equilibrio. In undici contro dieci, per 83 minuti meno due, la Juventus sembrava in dieci contro undici. Molle, bollita in Khedira e Pjanic, sazia negli altri, distratta sui calci piazzati (e dai). Una grande squadra normale l’avrebbe finita, l’Inter. E invece Madama l’ha tenuta in piedi, viva, fino al «solito» gol di Icardi e all’autorete di Barzagli, propiziata da Perisic che si era bevuto un Cuadrado ammonito e, per questo, esitante.

Poi è successo di tutto. Sono usciti Khedira e Icardi, il peggio e il meglio, sono entrati Dybala e Santon. Staffette cruciali. La Juventus si è guardata allo specchio cercando di scappare dalle rughe di Dorian Gray. L’Inter, stremata, si è consegnata all’autogol di Skriniar (da un cross di Cuadrado) e alla capocciata di Higuain, imbeccato da Dybala. Higuain che, sull’1-1, si era mangiato un clamoroso contropiede.

Cuadrado terzino su Perisic, addirittura, era stata la mossa-scossa di Allegri. Sono stati entrambi «pesanti», ciascuno a modo suo, ma la trama dell’ordalia ha seguito altre rotte, altri emozioni. A me è piaciuta più l’Inter che la Juventus: se penso al fumo con il Napoli, non credo che l’arrosto di San Siro basti per arrivare al settimo. C’è ancora la Roma all’Olimpico. In attesa di Fiorentina-Napoli e tutto il resto.

La stella, non le stelle

Roberto Beccantini25 aprile 2018

Sono stati cazzotti fra pesi massimi, molti a vuoto, pochi a bersaglio, con il Bayern sprecone e il Real spesso alle corde, ma non così suonato da dimenticare dove si trovasse: in Europa. E allora, manco il pari (che già sarebbe andato stretto ai crucchi): la vittoria, addirittura.

Sinceramente, la formazione di Zidane non mi convinceva. Senza Benzema e Bale. Chiedo umilmente scusa. E poi l’infortunio di Isco: dentro Asensio. Ha firmato il sorpasso. E poi fuori Carvajal: Benzema in campo e Lucas Vazquez terzino su Ribéry, il migliore del Bayern. La diga ha tenuto. Perdeva, il Real, come l’anno scorso: e come l’anno scorso ha rimontato.

A Heynckes già mancavano Neuer, Alaba, Coman e Vidal, e dal momento che i muscoli saltano come tappi anche in Baviera, ecco i k.o. di Robben e Boateng. Si chiamano colpi bassi. I contropiede e gli errori hanno orientato il tabellino: una gaffe di Navas ha spalancato la porta a Kimmich e, dopo il pareggio «biliardico» di Marcelo, un terzino che potrebbe giocare numero dieci, tanto ha allargato il repertorio, uno sgorbio di Rafinha ha armato la staffetta Lucas Vazquez-Asensio.

Le moviole hanno smascherato un rigore pro Bayern (?) e uno stop di braccio di Cristiano che sembrava da giallo persino a un «realista» come il sottoscritto. Cristiano Ronaldo, a proposito: in casi del genere, ricorro sempre al pisolo di Omero. Se si addormentava lui, perché – semel in anno – non dovrebbe abbioccarsi il Pallone d’oro? Il quale, tra parentesi, ha chiuso rincorrendo gli avversari, a conferma che pure al Real – dodici Coppe dei Campioni e molto altro – persino i padroni, ogni tanto, scendono in fabbrica, crocerossine graditissime.

Tirando le somme: niente a che vedere con il «rumble in the jungle» di Kinshasa. Ma era pur sempre Bayern-Real. Suvvia.

Hombre vertical

Roberto Beccantini24 aprile 2018

A me piace questo calcio: verticale, essenziale. Lo straordinario calcio «parziale» di Klopp, che in Europa non ha mai vinto. Mi piace più del tiki-taka di Guardiola, che in Europa ha vinto e rivinto. Klopp tende a trasformare buoni giocatori in fenomeni. Guardiola è diventato un fenomeno «anche» per i fenomeni che aveva (Messi, Iniesta, Xavi).

Scritto che questa volta non sono stati episodi come al Nou Camp ma molto di più, il risultato di Anfield è un macigno al quale la Roma – come nel 1984 contro il Dundee United e come nei quarti con il Barcellona – dovrà rispondere con un altro 3-0. Non escludo che Di Francesco, celebrato per la difesa a tre anti-Messi, verrà sbranato per averla rifilata (all’inizio, almeno) al tridente leggero dei rossi: un disastro, Juan Jesus. Eppure la Roma si era alzata dai blocchi da squadra matura: controllo del traffico, traversa di Kolarov, avversari bloccati ai valichi. Piano piano, il Liverpool ha cambiato marcia, ha accentuato il pressing, ha estratto da ogni palla rubata furibondi contropiede. Un pacco di gol e la sensazione che potesse finire peggio, molto peggio.

La rinuncia a Salah, sul 5-0, è stata un segnale. Il Liverpool si è seduto, la Roma si è alzata: la rete di Dzeko e il rigore di Perotti hanno, così, fissato un tabellino strano, quasi una elemosina. Rimangono, nella memoria, le folate del Liverpool. Inimmaginabili, dalle nostre parti, per ritmo e precisione. Doppiette di Salah e Firmino (il secondo di testa, addirittura) e acuto di quella cicala impunita di Mané. You’ll never walk alone: per amore, per forza, per tutto.

Salah, parliamone. I due gol e i due assist portano il bottino stagionale a 43 e 13. La differenza l’ha scavata lui. Nella Roma era Cristiano Ronaldo fino al momento del tiro, poi si perdeva e tornava Salah. Klopp l’ha trasformato in uno spietato pistolero. Al Chelsea «sfuggì» persino a Mourinho. Nessuno è perfetto.