Tra leggenda e legge (del Bernabeu)

Roberto Beccantini11 aprile 2018

Spiace dover cominciare dalla fine e da mister Oliver, da un contatto, quello fra Benatia e Lucas Vazquez, che al Bernabeu è rigore e altrove forse no, dal rosso a capitan Buffon, fin lì tra i migliori e al passo d’addio in Europa, dalla sentenza di Cristiano Ronaldo. Può bruciare, uscire così, ma bisogna avere la forza di guardare lontano. Da 0-3 a 3-1: è stata una Juventus finalmente grande in casa di un Real che all’andata l’aveva rovesciata. E che proprio nel romanzo della settimana scorsa, penalty a parte, deve concentrare rimpianti e rimorsi.

Come Di Francesco con il Barcellona, Allegri se l’è giocata al massimo. Doppietta di Mandzukic, la palla al piede dell’ultimo scorcio, poi «rapina» di Matuidi e, in generale, una partita di lotta e di governo, sempre sul pezzo, con i limiti e le risorse che conosciamo, di fronte a campioni che probabilmente pensavano di poter rischiare, sì, ma non così. Dalla traversa di Varane alla gaffe di Navas sembrava che gli dei gradissero l’impegno della Juventus. Tonica, reattiva, vaga o svagata solo in Alex Sandro e con Higuain nei panni, non nuovi, di mezzala. Molto bello il duello tra Marcelo e Douglas Costa, straordinaria la prima ora di Isco, «normale», per un marziano, il contributo di Cristiano.

Difficile dire se abbia pesato più la squalifica di Sergio Ramos o quella di Dybala. La Juventus avrebbe strameritato i supplementari. Mi piacerebbe che giocasse così anche in campionato, là dove arbitri e avversari non sono di questo ingombro. Cosa avrebbe potuto fare di meglio? Non perdere Cristiano nella sponda del fischio fatale (ah, Alex Sandro), coinvolgere di più Higuain, perdere meno palloni nelle zone calde del campo. Lo so, sto chiedendo il sangue. Restano, in due giorni, le emozioni di una stagione. L’impresa della Roma, la quasi impresa della Juventus. El miedo escenico del Bernabeu (e pure del Camp Nou, già che ci siamo).

Roma, mistero senza fine bello

Roberto Beccantini10 aprile 2018

Ecco dove può portare, per una sera, la forza dei sogni: oltre Messsi, al di là del Barcellona e del suo 4-1 esagerato dell’andata, in semifinale di Champions. Questa è un’impresa, e come tale va celebrata. E pazienza se la retorica imporrà il suo dazio. I lettori ci sono abituati.

Ci voleva la partita perfetta. C’è stata. Di Francesco l’ha preparata come meglio non avrebbe potuto; e se Valverde non proprio, peggio per lui. Dicono: la difesa a tre è poco europea. Sarà: è stata una delle chiavi, non solo per la capocciata di Manolas o l’irruenza di Juan Jesus e Fazio, entrambi a rischio rosso. I continui cambi di fronte, i lanci di De Rossi, la profondità garantita da Dzeko, grandissimo, e persino da Schick, quel mordi e arretra senza mai fuggire dalle esigenze di un pressing generoso, razionale, hanno imprigionato il Barça alle catene di uno stucchevole calcetto e di fotte difensive da ritiro della patente.

Subito avanti (Dzeko), la Roma ha concesso zero palle-gol e solo due punizioni a Messi. In compenso, dopo il rigore, solare, del raddoppio (Piqué su Dzeko, destro di De Rossi), ha atteso, ha rallentato, ha colpito, con Manolas, grazie alle risorse che le rimanevano: i calci d’angolo e i cambi (Under).

E Messi? Spinto nel traffico, ingabbiato e persino ammonito. Eppure i bollettini dalla Spagna lo davano in gran forma. Detto che per disarmare un marziano ci vuole anche la sua complicità, non si può non ribadire quanto Di Francesco abbia compiuto un capolavoro. Lo scarto gli imponeva di essere coraggioso, lo è stato governando gli eccessi, tattici ed emotivi.

Ci sarà tempo per chiedersi come mai «questa» Roma, capace di eliminare il Barcellona, abbia gia perso sette volte in campionato. Preferisco volare dagli autogol di De Rossi e Manolas ai gol di De Rossi e Manolas. Roma, mistero senza fine bello.

Colpi di coda

Roberto Beccantini7 aprile 2018

Sono vittorie, queste, che avvicinano allo scudetto e allontanano dall’Europa. Doppietta per doppietta, da Cristiano a Diabaté è cambiato il risultato, da 0-3 a 4-2, ma solo perché il Benevento non è il Real: anche se in alcuni momenti lo sembrava.

Allegri l’ha vinta ancora di episodi e di panchina. Non certo di squadra o con il gioco, al netto dei primi caldi (almeno quelli, uguali per tutti). Il primo rigore (Djimsiti su Pjanic) non meritava il Var; il secondo (Viola su Higuain), sì. Mi scrive un lettore juventino: ad aree invertite cosa sarebbe successo? Uffa.

Complimenti a De Zerbi. Con il mercato di gennaio e le idee di sempre, piccole ma concrete, ha cambiato il Benevento. Quel Diabaté è una sentenza: e quel Djuricic, una mezzala tutt’altro che banale. Lo 0-0 di Ferrara, nascosto dal 3-1 al Milan, aveva agitato argomenti che la sicumera complessiva della squadra ha contribuito a disperdere. Due volte in vantaggio, due volte beccati: sul campo dell’ultima in classifica, mica al Bernabeu.

Allegri è questo, lo sappiamo, e non mi sento di rinfacciargli l’ennesimo «recupero» di Mandzukic, l’uomo chiave del sesto scudetto e adesso, oggettivamente, una palla al piede. Lo avrei schierato anch’io: se non ora, quando? Su Dybala mi viene in mente l’ironica pagella che il corrispondente della «Gazzetta» rifilò a Rush dopo una quaterna in un Liverpool-Vattelapesca d’antan: voto 4; poker di gol a parte, non ha toccato palla. Ecco: tripletta a parte (splendido, il sinistro a giro che ha inaugurato la giostra), ha sbagliato troppi passaggi.

Sei gol al passivo in tre partite fra campionato e Champions: gli scricchiolii della fase difensiva non vanno trascurati, così come le parate di Szczesny su Djuricic e Iemmello. Inutile la prima, provvidenziale la seconda. Perché sì, persino a Benevento c’è stato bisogno del portiere. E allora?