Non guardate il dito

Roberto Beccantini5 novembre 2017

Sandro Ciotti disse Clamoroso al Cibali per annunciare che il Catania aveva sconfitto l’Inter del Mago. Questa, però, le stava per battere tutte. In undici partite, il Benevento aveva raccolto zero punti. Ripeto: zero. La Juventus, in compenso, veniva da tre vittorie, il compleanno e il pareggio moscio (ma prezioso) di Lisbona. Il successo delle streghe era dato a 35, se non ricordo male.

La trama mi ha riportato a quel calcio che, ragazzo, scartavo goloso. Gli attacchi dei più forti. Il catenaccio dei più deboli. Prima della punizione-chapeau di Ciciretti, c’erano stati un auto-palo di Brignoli e una traversa di Douglas Costa. Dopo, potete immaginarlo. Tiri, bolge, parate, con Higuain accerchiato e Dybala più libero ma non stabile quanto le esigenze avrebbero reclamato.

La palla la muovevano Marchisio, al ritorno da titolare, Cuadrado, Douglas Costa. C’era frenesia. C’era imprecisione. De Sciglio, a destra, era un uomo in meno (e, dunque, un errore di Allegri). De Zerbi ha riacceso l’orgoglio e portato un po’ di fortuna. La Juventus aveva davanti a sé una foresta, poi un muro, poi il destino. C’era un popolo intero ad attenderla, non una squadra. Sarebbe servita la velocità del pensiero. O il lampo di un singolo. O una mossa del tecnico. Viceversa, solo processioni votive nella speranza che qualcuno o qualcosa potesse infilarsi nella cruna dell’ago sannita.

Finché De Sciglio non ha fatto un cross, uno!, Matuidi la sponda e Higuain un gol dei suoi. Dalle favole, talvolta, escono fuori gli orchi. E così un cross l’ha azzeccato persino Alex Sandro e Cuadrado, di testa, ha rovesciato il risultato. Lo stolto, in questi casi, guarda il dito (cioè la classifica). Il saggio, sempre la luna (cioè il gioco, i giocatori). E voi?

Dimenticavo: occhio alla Roma.

Divieto di testa

Roberto Beccantini1 novembre 2017

Nella notte in cui si celebrava la sfilata del gioco, è bastata l’uscita di una pedina, Ghoulam, perché la partita prendesse un altro indirizzo, non così poetico. Fin lì, il Napoli di Sarri aveva dominato. Grandi ondate, gran gol di Insigne, dopo uno-due con Mertens, pressing alto e, almeno al San Paolo, la sinistra al potere (Ghoulam-Insigne).

Ecco: uscito il terzino franco-algerino, siamo tornati di botto a Napoli-Real. Testa di Otamendi, pareggio. Testa di Stones, sorpasso. Ricordate Sergio Ramos? Siamo lì. Partita croccante, soprattutto per un tempo. Coraggio contro coraggio. Piano piano, la qualità del City ha scavato il risultato. Detto di una traversa per parte (Stones, Insigne) e del pareggio di Jorginho su rigore, a conferma di una vitalità mai doma, il risultato è saltato per aria tra la paratona di Ederson su Callejon e il contropiede da area ad area della ditta Sané-Aguero. Un altro contropiede, da Sterling ovation, fissava il tabellino: 2-4.

Hanno vinto i più forti, punto. Sarri se l’è giocata come sa, a petto in fuori. Ha pagato il k.o. di Ghoulam, la vena un po’ sfiorita di Hamsik e Allan, le titubanze di Koulibaly e Albiol sulle cosiddette palle inattive. Il calcio di Guardiola è, oggi, più verticale; e quel De Bruyne, una mezzala completa. Dal cilindro della panchina, Sarri ha estratto Maggio, Rog e Ounas. Pep, in compenso, ha sdoganato David Silva, Bernardo Silva e Gabriel Jesus. Tu chiamale, se vuoi, sostituzioni.

Adesso la Champions del Napoli è appesa a pochi fili. Il grande rimpianto resta la sconfitta in Ucraina, non le due contro la squadra che, probabilmente, alzerà il trofeo. Avrebbe potuto fare di più, stasera? Meglio ancora: in onore dell’avversario, per una volta, avrebbe dovuto mimetizzarsi, avrebbe dovuto essere più gestore? Il Napoli è questo, nel bello e nel male.

Scherzetto

Roberto Beccantini31 ottobre 2017

Altro che la frenesia di Halloween. Altro che le emozioni da vigilia di compleanno. Come se la Juventus fosse andata a letto presto: già sbadigliava prima del gol di Bruno Cesar, su iniziativa di Gelson Martins, «bevuta» di Chiellini e respinta troppo dolce di Buffon, non vi dico dopo. La sconfitta avrebbe aperto un baratro; il pareggio, invece, tiene viva la Champions.

Jesus rendeva ad Allegri la difesa (Piccini, Mathieu, Fabio Coentrao) più William Carvalho. Mezza squadra. Lo Sporting ha giocato con umiltà, catenaccio mobile e pressione su Pjanic, su Dybala, su Higuain.

La Juventus era lenta, distratta, imprecisa. Un disastro, a sinistra, Alex Sandro e Mandzukic, peggiori per distacco. Non molto di più, a destra, De Sciglio e Cuadrado. E Khedira? Sempre al posto giusto nel momento giusto ma nel modo sbagliato. L’usato sicuro non funzionava. Agli avversari bastava far girare la palla e, ogni tanto, avanzare in branco per lasciare le belle gioie in fuorigioco.

Nessuna eco degli spari di Higuain, nessuna traccia delle giocate esplosive di San Siro. Eppure, alla vigilia, avevano parlato tutti della partita della svolta. Invece no. Invece niente. Colpa dei dipendenti o colpa del capo? Non credo che Allegri volesse questo, ma questo ha avuto, questo gli hanno dato. E comunque, almeno stavolta: più colpa dei piedi che dell’idea.

Voce di popolo: guarda che all’Alvalade il Barcellona ha vinto su autogol e la Juventus bene o male ha poi pareggiato, con Higuain servito da Cuadrado terzino d’emergenza. Higuain che, di testa, aveva già sfiorato il gol. Certo. Alla ripresa, in effetti, Madama è scesa dal letto e ha cominciato a girare attorno a uno Sporting sempre più blindato (e comunque pericoloso in contropiede).

Caro popolo: e allora?