Mejor dos heridos que un muerto

Roberto Beccantini22 novembre 2017

In Spagna si dice «Mejor dos heridos que un muerto». Per la traduzione c’è sempre Buffon. Al Barcellona serviva un punto; alla Juventus, un gioco e una precisione che oggi non sa offrire. Di emozioni, ricordo un palo casuale di Rakitic e, proprio agli sgoccioli, una gran parata di Ter Stegen su Dybala. Non senza sorpresa dei puristi, Valverde aveva rinunciato a Sua Maestà. Messi è poi entrato al 56’. E ha accompagnato l’operazione.

La Juventus distesa sul lettino, e tutt’intorno un gran ribollir di garze, di sonde, di tubi. Mancava il bisturi, in questi casi non proprio uno strumento secondario. Alla Juventus – a «questa» Juventus, almeno – non dispiace addormentarsi; e, se le riesce, addormentare. Il chirurgo era svogliato. Sbadigliava. Ha preso la palla e ha cominciato a passarsela. I ritmi, lenti, scongiuravano l’epica del romanzo. Buffon, non una parata. Ter Stegen, un paio.

Allegri potrà sempre dire che, in quattro partite, i marziani hanno segnato solo in una. La formazione varata, senza Mandzukic, contemplava tre stopper (Barzagli, Benatia, Rugani: ebbene sì fra i migliori), due centrocampisti – pochi, troppo pochi – e la solita pletora di punte e mezze punte/ali.

L’atteggiamento era ambiguo, un po’ timoroso e un po’ sospettoso, mai spavaldo. Le idee, vaghe. E poi i passaggi, argomento che riguarda i giocatori: un mezzo disastro. Khedira pesante, Pjanic scolastico, Higuain vuoto, Dybala a sprazzi, Cuadrado una riffa (e su Digne, che errore), Alex Sandro e Douglas Costa così così (ma sul centro-sinistra, fatica a liberare il mancino).

Di splendido, l’applauso a Iniesta. Di utile, l’ingresso di Marchisio e Matuidi. Di noioso, il possesso-palla dei catalani. Ma ci sono sere in cui persino la noia diventa un alleato. Per gli ottavi, ad Atene, basterà copiare il risultato dello Sporting (al Camp Nou). Per tutto il resto, bisogna crescere. E non di poco.

Insegna

Roberto Beccantini21 novembre 2017

Lo scarto confonde, è stata una partita tutt’altro che semplice. Non a caso, pur trattandosi del Napoli, l’ha orientata la giocata del singolo, non il gioco della squadra. Insigne, e chi se no. Fin lì, l’anima brasileira dello Shakhtar sembrava in totale controllo degli avversari. Ma i brasiliani sono brasiliani. Li attrae, visceralmente, lo stretto superfluo. E Insigne è Insigne. Destro a giro dall’arco e tanti saluti alla lavagna che, vai a sapere, avrebbe preteso altri snodi, avrebbe imposto sentieri diversi.

Non so cosa sarebbe successo, contro la Svezia a San Siro, con Insigne in campo. So cosa è successo senza. Non è una consolazione. E’ una constatazione. Il gol di Lorenzo ha spaccato l’ordalia. Il Napoli l’ha poi cementata, come documentano le reti di Zielinski e Mertens, lo Shakhtar l’ha persa. Non che cambi molto – dal momento che, per accedere agli ottavi di Champions, il City dovrà vincere in Ucraina e il Napoli a Rotterdam, con il Feyenoord – e non che il risultato smorzi i rimorsi dell’andata, anzi, ma insomma: al Napoli si chiedeva di vincere, ha vinto.

Senza l’infortunato Ghoulam e lo squalificato Koulibaly, Sarri aveva rinunciato anche ad Allan e Jorginho. Un turnover che il deserto del San Paolo aveva preso come l’ennesimo indizio di «scudetto first». E’ stato un Napoli inizialmente lento e pigro, con Mertens e Callejon spesso in fuorigioco; maturo al punto, però, da resistere ai meriti dei rivali e micidiale nello sfruttarne, strada facendo, i limiti.

Un Napoli che non si prende più tutta la torta e lascia sempre delle fette – al Milan, allo Shakhtar – , ma sa come distribuirle (a chi e con chi, soprattutto). E poi Insigne. A 26 anni, nel pieno del volo. Il sole è lontano ma le ali, a naso, non sembrano di cera. E lo scrivo dopo una perla che potrebbe non servire.

Il film di quest’anno

Roberto Beccantini19 novembre 2017

E’ il film di quest’anno. Non appena l’asticella si alza, la Juventus si abbassa. Entra ed esce dalla partita con una facilità che talvolta disarma e, spesso, la disarma. La Sampdoria non era la Svezia, anche se per un tempo lo sembrava. E qui stanno i meriti della Juventus, con Bernardeschi trequartista, Higuain e Cuadrado a un passo dal gol e la bandiera di Preti a imprigionare un fuorigioco del Pipita prima che intervenissero gli sceriffi della Var. Var che avrebbe dovuto far da guida a Guida anche nel caso del mani-comio di Strinic.

Insomma: persino Giampaolo avrebbe alzato il braccio di Allegri. D’improvviso è cominciata un’altra «cosa», che definire solita potrà sembrare esagerato, ma che eccessivo sarebbe pure considerare insolita. Piano piano, Torreira e Ramirez hanno preso campo, Zapata e Quagliarella hanno cominciato a lavorare ai fianchi la C senza più Bb. Morale: gol di Zatapa su campanile di Bernardeschi e Szczesny amletico, riscatto del polacco sullo stesso Zapata, raddoppio di Torreira, che nel cuore mi sta, tris di Ferrari in mischia.

E la Juventus? Scomparsa, letteralmente. Ecco perché invito a non prendere per oro colato le flebo di Douglas Costa e Dybala, e quel finale di selvaggia frenesia che, attraverso il rigore di Higuain e il sinistro dello stesso Dybala, potrebbe suggerire letture troppo indulgenti. C’era una volta il centrocampo.

Sei successi casalinghi su sei: giù il cappello, la Sampdoria di Giampaolo va inserita, a pienissimo titolo, tra le grandi. Allegri ha smarrito il tocco magico. Molti giocatori, pure. E’ presto per parlare di fine della tirannia. Gli indizi, però, ci sono. In attesa del Barcellona (a proposito), bisogna raccogliere i cocci e incollarli. Sono cocci sempre preziosi e costosi. E questa è un’aggravante, non un’attenuante.