Con i denti

Roberto Beccantini18 ottobre 2017

Fino alla scorsa stagione, la fase difensiva era stata la soluzione di tutti i problemi. Oggi, è diventata il primo dei problemi. Non appena gli avversari salgono di livello, segnano. Anche allo Stadium. Dopo la Lazio, lo Sporting Lisbona. Sembra, l’autogol che spariglia il mazzo, il riassunto di questo scorcio: c’è l’errore (di Alex Sandro), c’è la prodezza (di Buffon su Gelson Martins), c’è la iella (carambola su Alex Sandro, ancora).

La Juventus è la solita Juventus, lenta, pigra nei movimenti senza palla, scollegata nei reparti. Allegri l’ha miscelata, tornando al 4-2-3-1. Pjanic, al rientro, cerca asole in cui infilare il suo prezioso ago: la troverà su punizione.

All’ennesimo infortunio di Benatia l’allenatore rimedia con i 36 anni di Barzagli. E Rugani? In tribuna. La squadra di Jesus è tosta fisicamente, attende che gli avversari si buttino sotto per pizzicarli alle spalle, con Bruno Fernandes e Acuna.

Per provarci, la Juventus ci prova. Flette alla ripresa e passa, d’improvviso, quando Allegri pesca il biglietto vincente della lotteria, Douglas Costa. Che il gol lo realizzi Mandzukic, in tuffo, nulla toglie al cross del brasiliano. Tu chiamale, se vuoi, intuizioni: ma se proprio vuoi.

Lo Sporting, lo governa William Carvalho; e non male quel Piccini, scuola fiorentina del Novecento. Higuain si agita fra Coates e Mathieu: meglio come rifinitore. Sturaro terzino è un inno all’emergenza, Alex Sandro ogni tanto esce dalla partita: come la Juventus, del resto. I tiri di Dybala hanno smarrito la magia e la forza di settembre. Il migliore è Chiellini, un guerriero.

Successo cruciale in chiave Champions e oltre (forse). Rimane il gioco, da calibrare: tocca ad Allegri. Rimane la precisione, da raffinare: tocca ai giocatori. Patti chiari.

Vivi, dopo tutto

Roberto Beccantini17 ottobre 2017

Per mezz’ora, «Pep and the City» sembrava Ophelia. Ha preso il Napoli e l’ha spazzato via, letteralmente. Due gol, di Sterling e Gabriel Jesus, il primo nato a sinistra (David Silva), il secondo a destra (De Bruyne), là dove – sulle fasce, appunto – volava di tutto. Più una traversa di De Bruyne e una paratissima di Koulibaly su Gabriel Jesus. Più dieci tiri a zero.

Piano piano, il Manchester è tornato il Manchester – una squadra di questo pianeta, non di un altro – e il Napoli, come squadra, è nato. Il rigore parato a Mertens, il rigore trasformato da Diawara, il petto di Stones su Hamsik e, che ci crediate e no, fuori un attaccante (Gabriel Jesus) e dentro un terzino (Danilo). Come se, nel dubbio, Guardiola avesse preferito chiudere il luna park in leggero anticipo sulla propaganda.

Alla fine, 2-1: il calcio di Sarri esce sconfitto, sì, ma tutt’altro che mortificato. La rinuncia a Jorginho e ad Allan, il più «inglese» dei centrocampisti, era un cartello che fissava le gerarchie (scudetto, poi Champions); l’infortunio di Insigne, fin lì sbiadito, ha tolto comunque una freccia a un arco che già aveva «perso» Mertens, imbestialito dal penalty.

Pressing alto di qua, pressing alto di là. E ogni palla rubata, un invito alle sedizioni e alle transizioni. Ghoulam, ormai, va oltre il ruolo (di terzino sinistro); non spinge e non crossa solo: si accentra e tira pure (di destro). Prezioso l’ingresso di Allan: serviva benzina, l’ha portata.

Il calcio del City rimbalza fra picchi esagerati, a conferma che nemmeno la setta del Pep riesce a impossessari di tutta la torta: l’importante è gestire le fette che si tagliano i rivali.

Bella partita. La prima mezz’ora del City mi ha ricordato, mutatis mutandis, la prima ora del Bayern allo Stadium, con la Juventus. L’allenatore era lo stesso, Guardiola. Solo un caso?

Non è mai troppo Icardi

Roberto Beccantini15 ottobre 2017

Un derby «loco», che l’Inter ha vinto quando, dopo averlo impugnato e poi smarrito, sembrava che potesse vincerlo il Milan, addirittura. E per questo divertente, folle: come il rigore di Rodriguez agli sgoccioli degli sgoccioli.

Hanno vinto i giocatori, più che il gioco: Icardi con la sua tripletta, Handanovic con le sue parate. In mezzo, le volate e gli assist di Candreva e Perisic, la traversa dello stesso Candreva, gli strappi di Vecino, l’allegria di una difesa che pure resta tra le meno bucate. L’Inter di Spalletti è chiara fin da agosto, il Milan di Montella no. Il mercato e le vendemmie facili in Europa League avevano dopato le attese e nascosto i problemi. Quattro sconfitte in otto partite, tre delle quali consecutive, sono un avviso, sì, ma non certo di «garanzia» (per l’allenatore, almeno).

Montella ha regalato il primo tempo, l’ingresso di Cutrone ha rianimato la squadra e sabotato la trama. Altra musica, con Suso e Bonaventura mezzali. Per una ventina di minuti, solo Diavolo: il palo di André Silva, i voli di Handa, le finte e il fioretto di Suso.

Ha avuto il merito, l’Inter, di crederci sempre, anche quando era sotto bombardamento. Icardi che ruba palla a Biglia, serve Perisic che a sua volta lo imbecca per il 2-1 aveva tutta l’aria di un timbro. Invece no, ecco l’autorete di Handanovic su Bonaventura e un pari che traballava ma pareva ormai scritto. Fino allo sciagurato abbraccio di Rodriguez a D’Ambrosio. Sciaguratissimo.

La palla rimbalzava da un’area all’altra, manco fossimo in Premier, con occasioni di qua e occasioni di là. Di Bonucci, alla Juventus, mancano le aperture; al Milan, invece, le chiusure che si pensava potesse fornire.

In attesa che Allegri trovi la Juventus, l’Inter resta sola dietro al Napoli. E sabato sera, al San Paolo, il confronto diretto. Sarri dopo il City, Spalletti dopo il derby di Icardi.