Il secondo indizio

Roberto Beccantini14 ottobre 2017

Non è facile districarsi fra i meriti della Lazio, vittoriosa in rimonta, i segni del destino (traversa gialappesca di Higuain, palo di Dybala) e il secondo rigore parato alla Gioia (dopo Berisha, Strakosha). Solo il tifoso può prendere quello che vuole.

Non perdeva in casa dal 23 agosto 2015, la Juventus. Era stata l’Udinese, con Théréau, l’ultima a bucarla. Gloria alla Lazio di Immobile, dunque. Ha saputo soffrire, ha saputo reagire. E’ stata una partita gagliarda, più divertente di Liverpool-Manchester United, Allegri era passato al 4-3-3 e aveva rinunciato a Dybala. Le soste, si sa, lasciano sempre scorie. E quando mescoli i moduli, gli allenamenti diventano le partite. Aggiungetevi la panchina di Dybala e la tribuna di Pjanic: fantasia, zero.

Khedira, al rientro, ci ha pure provato. E Douglas Costa, tra i peggiori, aveva addirittura segnato (con il timbro della Var). Ma questi sono. Penso al polverone sollevato da Bernardeschi e al rigore della possibile restaurazione, giusto al 94’ (e ancora su dritta della moviola).

Già a Bergamo la Juventus aveva sequestrato l’avversario salvo farsi poi imprigionare. Higuain si è mangiato un quasi penalty, la difesa ha patito i tocchi filtranti, i contropiedi centrali: Luis Alberto la fionda, Immobile il sasso. Doppietta come in Supercoppa, ad agosto, su azione e dal dischetto. Quindici gol in stagione: nei nostri cortili, un fenomeno.

La mano di Inzaghi si avverte nel senso di squadra, che non significa invincibilità. Significa, pazienza, capacità di resistere ai propri errori, e di andare oltre. Come allo Stadium, in avvio di ripresa, quando la Juventus, frenetica, si è allungata consegnandosi a bolge senza vie di tiro. Più l’asticella si alza, più la tiranna si abbassa. I rigori di Dybala sono costati tre punti. Ma quanto avevano fruttato le sue triplette? La verità non va cercata lì. Va cercata, se mai, nella cura dei dettagli.

Passata è la tempesta, odo…

Roberto Beccantini9 ottobre 2017

«Passata è la tempesta, odo augelli far festa (Tavecchio di sicuro)». Giacomo Leopardi non avrebbe mai immaginato che il suo canto sarebbe diventato l’inno dell’Italia albanese. Non solo qualificata ai playoff mondiali, ma addirittura teste di serie.

«Ecco il sereno, rompe là da ponente, alla montagna; sgombrasi la campagna»: il gol di Candreva, fin lì macchinoso, ha scongiurato una crisi istituzionale. Il ct ha riesumato, per l’occasione, il 4-2-4/4-4-2 che la Spagna aveva «scherzato» al Bernabeu. Non ho capito il patto fra gentiluomini sancito a Torino, dopo il macabro 1-1 con la Macedonia. Tutti i giocatori, senatori e giovani. Soltanto loro. Come se Ventura gentiluomo non fosse.

La partita di Scutari, sul piano del gioco, non aggiunge nulla. E’ stata una sfacchinata pazzesca, risolta quando l’Albania di Panucci si è un po’ aperta. «O natura cortese, son questi i doni tuoi, questi i diletti sono che tu porgi ai mortali. Uscir di pena è diletto fra noi». Dalla lotteria è volato, miracoloso, il biglietto di Candreva. E così il 17 ottobre, nell’ambito del sorteggione, ci aspettano al varco Grecia, Irlanda, Irlanda del Nord e Svezia. Occhio agli orfani di Ibra, soprattutto.

Sarà un novembre ancora più caldo dell’autunno che il calendario ci sta propinando. C’era tensione, in campo, e una paura che ingessava le idee e i piedi della coppia Gagliardini-Parolo, accerchiata dagli Sioux di Basha. Pochi brividi corsi, anche se non proprio pochi pochi, ma anche poche occasioni create. Se non altro, rispetto a venerdì, non siamo crollati nel secondo tempo.

Contava solo il risultato. Si dice così, per evitare il pelo e il contropelo alla prestazione. Da qui ai Mondiali ne mancano ancora due. Questa Italia non basta. Quella di novembre, con il recupero dei degenti, chissà. E allora, cari «augelli», piano con il dire «Sì dolce, sì gradita quand’è, com’or, la vita?».

Alla frutta

Roberto Beccantini6 ottobre 2017

Non che l’Argentina stia molto meglio, e l’Argentina ha Messi, ha Icardi, ha Dybala, ha Di Maria e persino Higuain, ma l’1-1 con la Macedonia sa proprio di tappo. Gli spareggi mondiali sono sempre lì, anche se i topi d’archivio informano che il punto che sembrava bastasse, non basta. Mamma mia.

D’accordo, gli infortunati: Belotti, Conti, De Rossi, Marchisio, Pellegrini, Verratti. Ma c’è un limite a tutto (e a tutti): e Ventura lo sa. Nella classifica Fifa l’Italia occupa il 17° posto, la Macedonia il 103° e l’Albania di Panucci, che affronteremo lunedì a Scutari: allegria, il 66°.

Contesto chi contesta i fischi. Se non ora, quando? I guizzi di Insigne, un bel gol (da Insigne a Immobile a Chiellini), un paio di occasioni e una ripresa sgonfia-sgonfia, come se gli avversari, modesti ma cocciuti, ci avessero bucato le gomme. Temevo Nestorovski: ha colpito Trajkovski. Il calo è stato di testa, soprattutto. Sul gol del pareggio non mi è piaciuto neppure Buffon, e Bonucci, bé, Bonucci continua a fare troppo l’allenatore e troppo poco – in alcuni casi, almeno – il giocatore.

Parolo e Gagliardini sembravano turisti dispersi; non un dribbling Verdi, che da solo aveva stordito l’Inter, non un tiro Immobile, che in campionato pare Attila, notizie nebbiose da Zappacosta e Darmian, con la Bbc a frullare come una lavatrice. Il tutto, allo stadio Grande Torino di Torino: ci siamo capiti.

Dicono che il falò di Madrid abbia bruciato Ventura e i rapporti fra il ct e lo spogliatoio. Sarà. Gli Eder e i Candreva avrebbero potuto far volare i Lazzari azzurri? Ne dubito.

Se non si va in Russia, per Tavecchio sarà un’apocalisse, per Malagò una tragedia, per Ventura una catastrofe, per Parolo un disastro. Più o meno quello che dicono i Tavecchio e i Malagò di Baires. Mal comune mezzo gaudio? Nemmeno per idea.