Tedeschi ma non troppo

Roberto Beccantini12 giugno 2016

I tedeschi sono i secchioni del calcio. Se a un Europeo o a un Mondiale non ottengono il massimo dei voti, ci vanno vicino. Hanno cambiato stile, dalle sportellate della tradizione – beninteso, sempre agli ordini di un Kaiser; l’ultimo, Beckenbauer – sono passati al meticciato e al torello. All you need is Loew.

Li aspettavo, curioso, al battesimo di Lilla. Non credevo ai miei occhi. Non sembrava la Germania uber alles dei sacri testi. Sembrava, al contrario, una scolaresca che avesse marinato le lezioni, subito in vantaggio con la riserva di Hummels (Mustafi), vicina al raddoppio con Khedira (lui e Kroos, tra i migliori), ma poi alla mercé dei badanti ucraini, capaci di trasformare in Neuer, grande, persino il «tecnologico» Boateng. Tanto che, se il primo tempo fosse finito in parità, sarebbe stato un atto di giustizia, mica una sorpresa.

La rinuncia a un totem d’attacco toglieva profondità. Draxler, Ozil, Muller e Goetze in versione falso nueve sfogliavano i libri con la testa altrove. Svagati. Lenti. Sterili. Interrogati, Konoplyanka, Yarmolemko e Shevchuk riuscivano a fare bella figura. Possibile? Per un tempo, almeno. Alla ripresa, i tedeschi sono tornati i primi della classe. Salvo un tamponamento Neuer-Mustafi nel finale, avrebbero potuto, e dovuto, dilagare. Anche l’Ucraina, però, aveva un portiere: Pyatov. Il raddoppio di Schweinsteiger, guerriero antico e logoro, ma sempre guerriero, appartiene alle mance che spesso il destino, prendendo in contropiede l’abnegazione degli umili, concede ai più ricchi.

L’Ucraina era calata. La Germania era cresciuta. Resta da pianificare l’attacco, come reparto e nelle azioni. In Brasile c’era Klose. La pancia piena è come il canto delle Sirene: urge turare i garretti con la cera. E sperare che non si sciolga.

Polli

Roberto Beccantini11 giugno 2016

Sono ormai cinquant’anni che il calcio inglese, come nazionale, non riesce a sintonizzarsi con la storia, dopo averla scritta fin da quel giorno del 1863, presso la Taverna dei Framassoni, quando scelse i piedi e lasciò le mani al rugby.

Il pareggio che la solita insalata russa gli ha inflitto di testa, con Berezutski, agli sgoccioli degli sgoccioli, riassume l’eterna imperfezione di una scuola che non riesce mai a coniugare esigenze ed emergenze. Una volta, lo spazio aereo era il suo ufficio. Oggi non più. In passato, procedeva a spallate. Oggi non più. Palla lunga e pedalare, prima. Pedalare e palla corta, adesso. Sembrava che il 4-3-3 frenesia avesse un senso e dovesse funzionare, e difatti per un’ora ha funzionato, ma proprio sul più bello il destino ha preteso il suo balzello, non so che a titolo, e l’ha ottenuto.

Meglio l’England della Francia, tanto per dire. E Rooney suggeritore a me continua a piacere. Non dico che possa avvicinare Bobby Charlton, questo no, ma nel modo in cui si muove, appoggia e lancia, lo ricorda. La risorsa del gruppo è stata la velocità di crociera. Il limite, la mira sotto porta. Sterling ha perso il senso della porta, e anche del cross. Le bollicine di Alli, i tagli di Lallana, la voracità balistica di Dier, le catene di destra e di sinistra: beata gioventù.

E’ mancato, paradossalmente, l’uomo più sicuro: Kane. Soffocato, o coumunque svagato e impreciso nella mira. Più in generale, non è mai la quantità degli attaccanti a fare l’attacco: è la qualità. I russi si sono messi lì e hanno atteso che gli avversari calassero o arretrassero. Puntualmente – e storicamente, oserei dire – è successo. La correttezza ha agevolato Rizzoli. Sembrava un convento, la partita del Vélodrome, rispetto al Bronx sanguinario di Marsiglia, la Betlemme di Eric Cantona e Zinedine Zidane.

I segnali

Roberto Beccantini11 giugno 2016

Tanti segnali, dal battesimo di Parigi.

Il primo: ha deciso il migliore, Payet, ma non hanno vinto i migliori. Che fatica, la Francia, nel traslocare munizioni e ambizioni da un’area all’altra. Kanté è un gran ruba-palloni e Matuidi un bel motorino. Basta marcare a uomo Pogba, per sabotare i rifornimenti. Rami e Koscielny sono centrali di rottura, a Deschamps servirebbe un Bonucci.

Il secondo: la Romania ha giocato di gruppo e di fisico, a folate e a sciabolate. Che occasioni, Stancu, in avvio di partita e di ripresa (e che bravo Lloris, sulla prima). L’organizzazione può portare vicino all’impresa, teniamolo presente. O comunque, può accorciare le differenze. Complimenti a Iordanescu.

Il terzo: fuori Pogba. Un atto di coraggio, al di là del risultato, che l’ha premiato. Un paio di lanci e una volée su assist di Payet (a proposito). La pressione? Forse. I reticolati? Probabile. Ha accompagnato la partita senza prenderla mai in pugno. Nessun processo, nessun caso: un semplice flash.

Il quarto: il dribbling e l’audacia pagano. Non sempre, ma ogni tanto. Questa volta, per esempio. Dimitri Payet, classe 1987, gioca nel West Ham e, spesso, punta l’uomo come se fosse il destino. Lo stana, lo sfida. Ha pianto, uscendo. E’ un momento che va così. Le lacrime di Cosmi a Trapani, la commozione di Payet allo Stade de France: uomini, non caporali (e neppure caporioni).

Il quinto: se l’esempio deve venire dall’alto, e più in alto di un Europeo c’è solo il Mondiale, l’arbitraggio di gruppo non ha offerto nulla di clamorosamente speciale. Si può discutere il gomito largo di Giroud, anche se Tatarusanu, il portiere, era uscito un po’ molle. Netto il rigore di Evra, i cui 35 anni qui e là blindano i riflessi, non solo i contratti. Curioso, se mai, che l’abbia segnalato il giudice di porta.