Fino (quasi) alla fine

Roberto Beccantini12 marzo 2024

Dopo il Milan, uscito già nei gironi, la Lazio. Dopo la Lazio, il Napoli. Non ci resta che l’Inter, attesa dall’Atletico cholista. Era un Barcellona senza centrocampo e senza Camp Nou, con Cubarsì in difesa (classe 2007, voto 8) e Yamal (idem, voto 7) all’ala. Eppure: 3-1. La partita è stata divertente e il Napoli, per una settantina di minuti, all’altezza.

Come era nei voti, l’uno pari del Maradona ha liberato risorse e limiti. Pressing dolce, occasioni a ogni ribaltamento. Gli opliti di Xavi subito in cattedra, Raphinha scatenato, rete di Fermin Lopez e raddoppio di Joao Cançelo nel giro di 2’. Il secondo, fiuuu, in flagrante contropiede. A conferma di un tiki-taka non escluso dal menu, ma deposto dal rango di dogma.

Calzona è stato tradito da Osimhen (in offside, spesso), da Kvara e dai cambi. Era tornato in partita, il Napoli, lungo l’asse Politano-Rrahmani, e ci ha dato dentro, e ha avuto le sue occasioni. Una, soprattutto, sul 2-1: sciupata di testa, clamorosamente, da Lindstrom (tipo Immobile in Baviera). Il danese: uno dei subentrati. Come Sergi Roberto: lui sì decisivo. Nel disarmare Lobotka, nell’assist a Lewandowski. Con il senno di poi, non avrei tolto Politano («sottratto» persino a Sky da Adl). Nello stesso tempo, va detto che sino all’ipotesi del due pari il Barça aveva ripreso a soffiare come Eolo, a impegnare Meret.

Il Napoli, per la cronaca, aveva rischiato di prenderne cinque da Madama: il pericolo, dunque, era nell’aria. E così, al di là della riffa legata al pestoncino di Cubarsì al totem africano (Acerbi-Osimhen, nulla; Nonge-Osimhen, rigore), poco da aggiungere. In attacco, Calzona ha recuperato brani del Napoli spallettiano; in difesa, viceversa, siamo ancora lontano. La traversa di Olivera è stata l’ultima cartolina dal Montjuïc. Ciao quarti, ciao Champions, ciao Mondiale per club.

Dimenticavo: non è mai troppo Nardi. Complimentissimi.

Almeno non si sbadiglia più

Roberto Beccantini10 marzo 2024

Non posso non cominciare da Liverpool-Manchester City 1-1. Klopp versus Guardiola all’ultimo atto, almeno in Premier. Jurgen lascia a giugno, Pep resta. Sono stati anni di una rivalità grande, perché accesa da grandi torce. E sempre sul filo di un calcio possessivo e ossessivo, il tedesco con il suo casino organizzato («gegenpressing»), il catalano con il suo laboratorio aperto al nuovo, dal centravanti spazio al centravanti ciccia. Umani e fallibili anch’essi, per carità, e pure le loro squadre: ma quanto li (e le) ho invidiati. Grazie, Jurgen.

Il salto a Juventus-Atalanta 2-2 (la scorsa stagione, 3-3) è brusco ma non noioso. I miei «Mvp»: Koopmeiners, Cambiaso, Chiesa. L’olandese spacca l’equilibrio da punizione (ci si aspetta la lecca di Scamacca; no, schema: carezza di Pasalic per il sinistro del batavo) e fissa il tabellino dopo che la giovane Vecchia si era inventata uno scorcio da avanti Savoia, pareggio di Cambiaso (su tocco di McKennie e azione da Inter), raddoppio di Milik su do di petto del texano.

Gasp ha insegnato calcio: poi, è chiaro, con Ilicic e il Papu volò in Champions; senza, non più. L’Allegri bis continua a sbirciare la quinta e a insistere su Miretti (mistero: e Yildiz?), ma dopo Vlahovic, out per squalifica, ha recuperato Chiesa, scroscio – e non più nuvola – sino al momento del tiro. E Cambiaso: scuola Motta, terzino o mezzala, tuttocampista, una spina nel fianco. Non lo avrei tolto.

La Dea aveva giocato mercoledì, a Lisbona. Da qui, turnover e transizioni. Madama non fa coppe, ma soltanto a tratti riesce a pescare la benzina di cui i serbatoi dovrebbero essere pieni. Inoltre: c’era una volta la Bbc. Due gol dal Verona, altri due dal Frosinone, dal Napoli e dall’Atalanta. Se aggredisce, si scopre: a conferma di limiti strutturali e ideologici. Il sorpasso del Milan e il terzo posto sono, credetemi, l’ultimo dei problemi.

Di governo e di lotta

Roberto Beccantini9 marzo 2024

Un tempo al governo, l’Inter, e uno di lotta, all’opposizione. E così, ciao Bologna. La squadra che veniva da sei vittorie, in campionato l’aveva rimontata a San Siro (da 0-2 a 2-2) e, sempre al Meazza, eliminata dalla Coppa Italia. Un’orchestra diretta da un maestro, e non già una band di scappati di casa baciati dalla lotteria della bocciofila, applaudita e riverita dalle platee e dai loggioni di tutta Italia.

Ma l’Inter è l’Inter. Niente scorte, stavolta. Prestazionista, se vuole; risultatista, se deve. E Inzaghi è Inzaghi, metà Sacchi metà Allegri. Con l’Atletico nella testa (ma neppure tanto) e una mimosa per la Vecchia in mano, dal momento che le ha sconfitto una rivale di Champions (a domani, Dea).

Ha deciso Bisseck, non ancora titolare, non più riserva: di testa, su cross di Bastoni. Come dire: la parola alla difesa. Inzaghino ha ormai conquistato tutti, persino «Drago» Motta. Che, questa volta, non mi è piaciuto: Fabbian fisso in panca (Marotta: è nostro e ce lo riprenderemo), Odgaard esterno e fuori Zirkzee al momento della lotteria conclusiva. Per carità: non uno Zirkzee al massimo (Acerbi e c. non sono mica pirla), e pure protagonista non impeccabile dell’unica, vera, palla-gol prodotta (Sommertime, puntuale), ma il migliore, a meno che non sia lui a chiederlo, non lo tolgo mai.

Calhanoglu di rientro e Lau-Toro fuori, per rotazione. Thuram e Alexis Sanchez dentro, subito. E Arnautovic alla fine, vittima dell’ennesimo crac muscolare. I punti sono 75, gli stessi della Juventus di «martello» Conte, la stagione del record a 102. Posso? Precedenza all’Europa, visto che lo scudetto è ormai (ormai?) in tasca (in tasca?).

Al Dall’Ara aveva vinto solo il Milan: il 21 agosto scorso; e alla prima, per giunta. Era d’estate, tanti pronostici fa.