Fort (e) Apache

Roberto Beccantini18 marzo 2015

Ecco. Non so dove porterà, ma la si cercava tutti, e c’è stata. Una grande partita della Juventus in Champions. Meglio ancora: una grande partita della Juventus in una trasferta di Champions. Non c’era Pirlo. E dopo una ventina di minuti si è rotto Pogba. Il mio pronostico, austero, privilegiava di poco i tedeschi (55% a 45%) ai quali, in fin dei conti, sarebbe bastato l’1-0.

Naturalmente, le guarnigioni di Klopp verranno declassate a pippe. E’ un classico degli italiani. Di Allegri mi è piaciuta la personalità; della squadra, l’impatto, e lo spirito con il quale ha assorbito l’ingresso di Barzagli e il trasloco alla difesa a tre barra cinque (mai o raramente passiva, però).

La differenza, come all’andata, l’hanno scolpita gli attaccanti: Tevez, due gol e un assist; Morata, un gol. Fort (e) Apache: proprio così, con il giro palla e il contropiede legati indissolubilmente.

Come disse Obdulio Varela, «jefe» dell’Uruguay, per rincuorare i suoi scossi dai 200 mila del Maracanà, «los de afuera son de palo», quelli là non contano un tubo. E’ successo con gli 80 mila del Westfalenstadion, vera e propria terra promessa delle migrazioni juventine. Quattro partite, quattro vittorie: 3-1, 2-1, 3-1, 3-0. Da Roberto Baggio a Carlitos Tevez, passeggiando per Alessandro Del Piero.

Klopp aveva rinunciato a Immobile, il Borussia non è riuscito a cambiare ritmo: colpa sua e merito di avversari che non hanno mai avuto bisogno di avere fretta. Nella Juventus, mi sono piaciuti tutti: anche Evra, anche Vidal, e persino Pereyra su Gundogan. E poi occhio a Buffon: molto meno impegnato di Weidenfeller.

Il tradimento di Conte fece scattare l’operazione Allegri. Lo sapete, non mi entusiasmava. Per scrivere che mi ero sbagliato aspetto che nel sacco entri almeno un gatto, ma comincio a portarmi avanti.

La solida Juve

Roberto Beccantini14 marzo 2015

A Palermo aveva vinto solo la Lazio. Cominciamo da qui, e dal dettaglio non marginale che a Dortmund, per restare in Europa, la Juventus dovrà giocare meglio. E’ stata una partita-lavatrice, noiosa nella sua frenesia, dal cui oblò ho visto frullare un sacco di «panni». Provo a riassumerli.

Mi è piaciuta la gamba, della Juventus, quell’aggressività proletaria che ha riservato a Dybala e Vazquez, emarginandoli dall’ordalia. Non mi sono piaciuti, viceversa, lo sciopero del tiro e la modestia dell’ultimo passaggio.

Cruciale l’ingresso di Morata. Un gran gol, il suo: controllo, arresto e tiro. Da centravanti di razza, quale sa essere nei momenti in cui non si crede unto del Senor. Llorente si era perso nel traffico di Palermo. Allegri ha azzeccato il cambio. Con tutto il rispetto, lo avrebbe indovinato anche Iachini. L’importante è la rosa, tra le note e in panchina.

Il turnover, morbido, ha influito sulla qualità del fraseggio, non sulla quantità del pressing. Barzagli ha mascherato le ruggini sotto quintali di mestiere (ma in Germania non lo rischierei). Sturaro ha debuttato con il piglio del marine: le ha date e le ha prese senza fiatare. Fino alla resa.

Vidal è ancora lontano dalle spiagge sulle quali, immagino, vorrebbe tornare a sdraiarsi. Infortunio, testa e nuove mansioni (non questa volta, però) gli hanno confuso il repertorio.

Il recupero del 3-5-2 ha prodotto il secondo 1-0 consecutivo. Si procede per lampi, da Pogba a Morata. La solida Juventus. Il Palermo, in casa, aveva sfiancato la Roma e liquidato il Napoli. Non proprio una squadra-saponetta. La vittoria avvicina la Juventus al quarto scudetto consecutivo. Ignoro, invece, quanto l’avvicini ai quarti di Champions. Per il Borussia, secondo 0-0 di fila. L’unico risultato che, mercoledì, mi sentirei di escludere.

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Sic transit José mundi

Roberto Beccantini12 marzo 2015

Secondo il gentile Fulvio, il Greto Garbo della Clinica per il fascino misterioso del lessico, «a livello tecnico, questi tornei [Champions League] equivalgono al torneo dei bar estivi». Ero a Roma nel 1996 e non mi sembra di ricordare che capitan Vialli avesse alzato una mortadella, ma posso sbagliarmi. Nel rispetto della sua opinione, credo che la Champions sia qualcosa di più, in assoluto, di un certame balneare.

Per questo scrivo della lezione che il Paris Saint-Germain ha inflitto al Chelsea di José Mourinho a Stamford Bridge, eliminandolo dal torneo dei bar di cui sopra. Con Ibrahimovic espulso troppo presto e troppo in fretta (il Mazzoleni di Chievo-Roma lo avrebbe forse ammonito, ripeto: forse), con Cavani cecchino «impalato» e Thiago Silva prima traditore (il rigore) e poi giustiziere (lo smash del 2-2).

La scorsa stagione, sempre negli ottavi, Mourinho pescò dal mazzo Schurrle e Demba Ba: entrati a gioco in corso, firmarono il 2-0 che ribaltava l’1-3 del Parco dei Principi. Salii sul carro di Josè incantato e venerante, specialista in Special One. Un anno dopo, abbandono il carro come un mediocre Schettino al grido di «Già fuori con i soldi di Abramovich, shame, shame!».

Swinging Paris. Diabolico, Mourinho è arrivato a dire che l’uomo in più aveva favorito i Blanc, non i bleus. Salvo poi aggiungere, da cherubino col passamontagna, «Sono stati più forti di noi». A Roma direbbero: e te credo.

Josè è allenatore estremo ed estremista, nei trionfi (Porto, triplete con l’Inter), nelle mosse (il catenaccione del Calderon, Pepe mediano contro il Barça, la mossa Zouma contro il Paris in dieci), nei tonfi. Dividerà sempre. Laurent Blanc ha studiato gli errori di un anno fa e li ha corretti. Mourinho, viceversa, si è seduto sul suo ego. Che per una volta, ma non la prima, l’ha schiacciato.